Cronache dal fronte sanitario VIII

di Luigi A. Santoro

Il motivo è quello di Gaber, ma la magia non l’aveva fatta Gino, cioè io. Mi ritorna alla mente l’iniezione miracolosa di Lazzaro di Luigi Pirandello, ma tra l’iniezione miracolosa e il mio risveglio ci sta una sala operatoria che ogni giorno continua a suonare la sua sinfonia tecnologica.
La tecnologia la fa da padrone anche nella sala di terapia intensiva. Non ho dolore, l’assistenza delle infermiere e dei medici è a vista. Dalle domande capisco che vogliono sapere se le mie risposte sono coerenti, se hanno un senso. La mia ironia sul fatto che avrebbero dovuto essere loro a dirmi come stavo, riscuote grande apprezzamento, accompagnata dalla minaccia di essere trasferito a breve in reparto. Ho parlato di minaccia, e questo l’ho capito dopo, perché a mano a mano che ci si allontana dalla sala operatoria la qualità dell’assistenza diventa sempre più bassa. Naturalmente non stiamo parlando della competenza e della coscienza del personale, ma della struttura di un’organizzazione che via via che ingloba elementi collaterali all’intervento chirurgico, finisce per degradare verso livelli sempre più bassi. È sufficiente verificare la qualità dell’arredamento, delle attrezzature di supporto e del cibo per rendersi conto di come la valenza sociale dell’attività sanitaria finisca per scadere a livelli inaccettabili. E quando lo si sperimenta sulla propria pelle, tutto questo, vi posso garantire che non è piacevole.
Vengo trasferito, a distanza di meno di ventiquattr’ore, in una stanza a cinque letti, raffreddata – si fa per dire! – da un ‘pinguino’ che fa il rumore di un carro armato. I bagni sono nel corridoio. In preda alla disperazione, chiedo di essere trasferito nella stanza accanto: due letti, niente bagno, e, ahimè!, il condizionatore rotto. Nel frattempo devo prendere atto che una complicanza ‘normale’, un PNX al polmone destro, che ha richiesto l’introduzione di una sondina, ha reso la qualità della mia riacquistata vita alquanto ridotta. Fuori ci saranno intorno ai 35°, ma dentro si superano abbondantemente i 40°. Sono attaccato alle lenzuola, che sono attaccate alla traversa, che è attaccata al materasso zuppo come una spugna.
Mi rifiuto di raccontarvi la notte di tregenda, con la pressione che schizza a 170, una pompa che viene sostituita da un cerotto e il grido disperato: “Voglio tornare in terapia intensiva!”. Nella stanza con me un signore di Nardò, accudito dalla figlia e dai nipoti, hanno un bed & breakfast, sopporta questa situazione da diversi giorni. Sono loro che mi dicono delle sceneggiate di tecnici, elettricisti, idraulici, che arrivavano, davano un’occhiata al cadavere tecnologico e sentenziavano: “Non è di nostra competenza!”. Per me una qualche soluzione si sarebbe trovata, per esempio ritornando nella stanza a cinque letti, ma quale ‘culo di piombo’ di impiegato avrebbe dovuto essere preso a calci per rimettere in vita il condizionatore avariato?
Ho qualche difficoltà a continuare il racconto, perché sono da due giorni nella clinica Petrucciani e non sono riuscito ancora ad adattarmi alla nuova situazione. Autorizzo, comunque, Antonio e Sandro a mettervi a disposizione un’immagine di questa storia.

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