Ferdinando Taviani su Amleto e Don Chiscotte

II libro si apre con un capitolo dedicato alla “Turbolenza del testo”, e con questa affermazione: “L!Amleto di Shakespeare è uno di quei testi che deve la sua fortuna alla instabilità”. Det­to questo, già il novanta per cento dei commenti è fatto fuori. Resta il problema di capire la fonte di tanta instabilità, dato che non potrà trattarsi di manchevolezza, ma di moto, di tensio­ne, instabile equilibrio, e insomma vita.
L’autore, infatti, parte da queste premesse per un viaggio che scende nell’ambiente urbanistico e mentale del teatro elisabettiano, poi nel mondo d’Amleto, fino a concludersi con una pa­gina davvero bella che immagina lo spettatore uscire dal teatro, alzare gli occhi e trovarsi sotto “L’insegna del Globe in una notte di luna”. Segue, come un’appendice o un rispecchiamento dell’intero libro sotto altre spoglie, il capitolo “Visita a Don Chisciotte”.

I capitoli intermedi hanno per titolo “L’onda del teatro”, “L’onda della follia” , “La macchina «vera» di Amleto”, “La scena della corte”, “Partenze e ricordi”. E poi, come s’è detto, la luna e l’insegna.
Per la follia e il teatro (cioè il «teatro nel teatro») si parla di «onde» perché sono temi di lungo percorso sui quali 1’Amleto naviga per linee torte, ed anche perché sono individuati dall’autore come gli elementi destabilizzanti che vanno ad in­frangersi sullo scoglio della «revenge tragedy».
E’ un libro divertente, per nulla incline ai profluvi di note universitarie, preciso nell’essenziale; apparentemente divagante; «povero», nel senso in cui lo sono gli itinerari critici perso­nali che eludono le comitive di studi e non s’appoggiano sugli argomenti vidimati, come – per citarne di famosi – certi libri di Graves o di Lacarrière, o persino di Santillana, o ancora restando più vicini – come lo è il Viaggio nella mente barocca di Gianfranco Dioguardi (nel quale però c’è forse un eccesso d’auto-consapevolezza amatoriale da uomo colto e ricco anche di danaro). Libri carichi di letture e spogli d’ambizioni professorali, quin­di «poveri» a quel modo per cui s’è parlato di «Arte povera» e di «Teatro povero».
Se gli chiedessimo l’architettura accademica ci apparirebbe ricco di scompensi. Ma è tutt’altro genere. E’ un libro-conversazione. Conversazione dotta, scritta con gusto ed indipen­denza di linguaggio. Qui sta il suo rigore, d’una consequenzia­lità concettosa che innesta il tema dell’instabilità del testo teatrale in quello del teatro nel teatro e quindi nell’analisi della “vera” macchina dell’Amleto, per approdare al Don Chisciot­te e al libro come essere vivente capace di immettere il lettore nelle sue interiora.
Quest’approdo indurrà forse qualche lettore in sospetto, perché la sapienza divertente e annodata del Chisciotte, che da sempre al lettore l’illusione d’acchiapparne il bandolo, ha at­tratto troppe teste nei suoi labirinti, troppi commenti, troppi miti (a cominciare – o per finire – con Pierre Menard), perché non si senta un’ombra di fastidio a ritornarci per interposta persona. In questo caso, il fastidio del lettore sembra essere anche dell’autore, come se Santoro, pur non riuscendo a farne a meno, non avesse però più vera voglia di mettercelo il suo Don Chisciotte nel libro.
Relegate nel capitolo finale, come uno specchio incorniciato, le pagine sul Chisciotte appaiono così un po’ pretestuose e ov­vie, forse perché furono un punto di partenza. Penso che rende­rebbero tutto il dovuto se si sciogliessero lungo l’intera con­versazione, restandovi senza darlo a vedere. Probabilmente erano le pagine a cui l’autore teneva di più – anche per una venerazio­ne personale nei confronti del salentino Bodini – e forse pro­prio per questo avrebbero dovuto esser soppresse, secondo l’aurea ricetta «Kill thè Darling!, ammazza quel che t’è più caro, fai fuori il cocchetto». Credo insomma che se l’autore tornasse a metter le mani su questo suo libro (e lo meriterebbe), Don Chisciotte sparirebbe sia dal titolo che dal capitolo finale e ani­merebbe tutte le pagine in incognito.
Santoro, a p. 10, propone al lettore due «corti dei miraco­li» affrontate: quella spettacolare degli attori che culmina ai suoi occhi – con “le interpretazioni sghembe delle grandi at­trici, da Sarah Siddoris a Sarah Bernhardt, fino al ghigno di Carmelo Bene” (e va notato come a volte la competenza d’un teatrologo si manifesti anche “nel modo elusivo e fino con cui compone un elencuccio di tre nomi), e l’altra corte dei miracoli, “più com­passata”, che è quella dei critici. Sia l’una che l’altra votate allo «scacco», se per scacco si intenda la necessità, tanto per gli interpreti-attori che per gli interpreti-critici, a lasciar fuori qualche parte di Amleto, come debordante o difforme rispet­to alla loro visioni. Accade spesso – dice giustamente Santoro che “il risultato del lavoro interpretativo sia costituito da ve­ri e propri «mostri»”: per questo l’immagine delle «corti dei miracoli» non è esagerata.
Alla radice dello «scacco» “vi è il postulato, più o meno esplicito, che il testo teatrale sia oggetto di natura puntifor­me, delimitato e circoscrivibile nello spazio e nel tempo”. Siamo proprio all’inizio del libro, nel punto in cui l’autore prende lo slancio. Prosegue infatti così:
A pensarci bene fra la definizione di testo come strut­tura circoscritta e stabile e i concetti che hanno fon­dato la fisica classica sembra quasi di poter scorgere un continuum che per diversi secoli ha costituito il fondamento stesso della conoscenza: solo ciò che è re­golare e stabile è conoscibile, tutto quanto è imprevi­sto, irregolare, caotico, se non può essere ricondotto entro il dominio della regola, rimane anche fuori dal territorio della conoscenza. In questo quadro concet­tuale si spiega abbastanza facilmente l’accanimento col quale da una parte i fisici hanno cercato di eliminare
il tempo dal loro mondo e dalle formule escogitate per descriverlo e, dall’altra, l’impegno esercitato dagli studiosi di scienze umane a pulire i testi da ogni in­terferenza esterna e da qualsivoglia instabilità inter­na.
Ilya Prigogine occupa un gran posto nel pensiero di Santoro, ed il gusto per il pensiero scientifico rende spesso sapide le sue pagine, che rispetto a tanti scritti supponenti semiologici e scolastici (primi fra tutti quelli infelici della Ubersfeld), so­no forse fra quelle che meglio rendono 1!idea della viva comples­sità d!un testo teatrale.
A p. 16 lo «scacco» diventa infatti segno di vita, ciò che appassiona l’autore. E più: che l’incanta. Scrive:
L’impossibilità di definire il «vero» testo dell’ Amleto di Shakespeare non deve esser letta come uno scac­co della ricerca filologica, incapace ci ricostruire un continuum lacerato dal tempo ma, al contrario, come la straordinaria possibilità di elaborare delle strategie di conoscenza in grado, come diceva Maxwell, d’indivi­duare «le poche isole di determinismo nell’oceano del­le indeterminazioni».
Di qui in poi, gli interessi del lettore del libro di Santoro tendono a divaricarsi dagli intenti del libro stesso: questo con­duce avanti, verso panorami che s’allontanano di molto dall’oriz­zonte della filologia del testo teatrale. Che però è il soggetto che più s’impone; tanto che, mentre nel libro occupa solo la pri­ma trentina di pagine, nel ricordo, dopo una spedita lettura, campeggia invece come l’argomento principe.
Quest’asimmetria non dipende dalla scrittura, ma dalle con­nessioni fra un capitolo e l’altro, dall’architettura.
A partire dal secondo capitolo, sfugge non il senso delle storie raccontate con grande efficacia da Santoro, ma il senso del loro stare assieme. Eppure, dopo esser ritornato più volte su queste pagine, sono convinto che questo senso vi sia, e sia anzi prezioso, intuito con chiarezza ma non altrettanto chiaramente posseduto, lasciato allo stadio in cui è ancora l’idea a condurre l’autore e non questo a condurre quella verso la sua forma ester­na.
Dati i caratteri del libro, mi fermerò ancora un poco sul problema della filologia del testo drammatico (ciò che qui attrae più l’attenzione), per passare poi al resto sfuggente ed essen­ziale. Ad unire le due parti del libro vedremo che c’è, a p. 32, una bizzarra immagine di «teatro nel teatro» che resta a metà fra un’agudeza ancora da affinare e la pregnanza ancora un po’ opaca d’una parabola storica.
Sono del parere che la questione tanto complessa del testo teatrale – o meglio: del testo letterario drammatico – verrebbe ridimensionata se vista all’interno della questione più generale dello spazio letterario del teatro, che è un luogo di confluenze e contese, di mutazioni e passaggi, risultante da tutto ciò che dalla letteratura si riversa nel mondo degli spettacoli e che da­gli spettacoli rifluisce nella letteratura. La letteratura drammatica costituisce uno dei casi – sia pure di particolare rile­vanza – all’interno di tale più diffuso fluire e rifluire che ca­ratterizza la civiltà teatrale di matrice europea.
Il concetto di «spazio letterario del teatro» permette di sottolineare l’affinità elettiva fra teatro e letteratura, fra spettacolo e libro, senza per questo trasformare tale affinità in una costrizione che leghi il teatro alla sola immagine di qualcu­no che fa spettacolo mettendo in scena un dramma preesistente. E senza prestar fede al paradigma (o all’ideale, alla superstizio­ne) della ricerca del testo fisso, della versione ne varietur, che fra i testi teatrali è più dubbia che altrove.
Proprio i casi in cui le relazioni fra testo letterario dram­matico e spettacolo sono incontrovertibili e strette mostrano che non esiste ancora un solido abici filologico: non si sa alla luce di quale nozione di testo pensarne l’edizione.
Il testo fatto per la rappresentazione, sostiene con chiarez­za Andrea Gareffi introducendo l’edizione d’un classico, dell’ Aminta, è per definizione un testo paradossalmente fissato ut va­rietur, non ne varietur, aperto a scambi continui e non teso ad una lezione definitiva (Torquato Tasso, L’Aminta, annotata per cura di Angelo Solerti, introduzione di Andrea Gareffi, Roma, Vecchiarelli, 1992, p. XI).
Ma non credo che ciò equivalga a negare il problema filologi­co dell’edizione critica di un testo teatrale, cioè il problema della sua trasformazione in libro. Non vuoi dire che un testo scritto ut varietur non possa trasformarsi in un testo da legger­si proprio come si legge un testo letterario, non come si legge­rebbe uno spartito. Né mi pare che si debba tener conto d’una pletora di varianti “d’autore”, ora stampate ora recitate. Credo al contrario che occorra ridefinire ogni volta il criterio che permetta di decidere oculatamente di quale massa di varianti sia lecito non tener conto.
Su questo punto non mi trovo d’accordo con Santoro. Egli ha ragione quando dice (p.15) che “l’assenza del testo «vero» [cioè fissato una volta per tutte, almeno come intenzione, dal­l’autore] coincide con la presenza di più testi e definisce una zona di turbolenza che si autoalimenta”; ha ragione quando propo­ne di “adottare come ipotesi di lavoro la natura instabile del testo teatrale, il suo comportamento analogo a quello di un orga­nismo vivente, di una struttura dissipativa” (p.21), ma credo che abbia torto quando pretende che “la filologia dei testi teatrali non [possa] concentrarsi sul testo scritto, specialmente quando esso è a stampa” e che invece debba “dilatarsi, visitare i «ma­gazzini» delle compagnie, le forme della scena, le abitudini e i comportamenti degli spettatori, le concezioni del tempo e dello spazio, le diverse forme della rappresentazione” (p.26).
Alla fin fine questa necessità, se venisse davvero considera­ta una necessità, servirebbe a ripristinare l’idea d’un nesso in­dissolubile fra scrittura drammatica e messinscena, la stessa in­dissolubilità – anche se qui riveduta in uno specchio e quindi con la destra al posto della sinistra – che viene supposta quando si immagina il testo fisso una volta per tutte, gravido del suo virtuale spettacolo.
Nella pratica, poi, se lo storico o il filologo dovesse dav­vero diffondersi in una filologia che visita “i magazzini delle matica costituisce uno dei casi – sia pure di particolare rile­vanza – all’interno di tale più diffuso fluire e rifluire che ca­ratterizza la civiltà teatrale di matrice europea.
Il concetto di «spazio letterario del teatro» permette di sottolineare l’affinità elettiva fra teatro e letteratura, fra spettacolo e libro, senza per questo trasformare tale affinità in una costrizione che leghi il teatro alla sola immagine di qualcu­no che fa spettacolo mettendo in scena un dramma preesistente. E senza prestar fede al paradigma (o all’ideale, alla superstizio­ne) della ricerca del testo fisso, della versione ne varietur, che fra i testi teatrali è più dubbia che altrove.
Proprio i casi in cui le relazioni fra testo letterario dram­matico e spettacolo sono incontrovertibili e strette mostrano che non esiste ancora un solido abici filologico: non si sa alla luce di quale nozione di testo pensarne l’edizione.
Il testo fatto per la rappresentazione, sostiene con chiarez­za Andrea Gareffi introducendo l’edizione d’un classico, dell’ Aminta, è per definizione un testo paradossalmente fissato ut va­rietur, non ne varietur, aperto a scambi continui e non teso ad una lezione definitiva (Torquato Tasso, L’Aminta, annotata per cura di Angelo Solerti, introduzione di Andrea Gareffi, Roma, Vecchiarelli, 1992, p. XI).
Ma non credo che ciò equivalga a negare il problema filologi­co dell’edizione critica di un testo teatrale, cioè il problema della sua trasformazione in libro. Non vuoi dire che un testo scritto ut varietur non possa trasformarsi in un testo da legger­si proprio come si J.^gge un testo letterario, non come si legge­rebbe uno spartitoV Né mi pare che si debba tener conto d’una pletora di varianti “d’autore”, ora stampate ora recitate. Credo al contrario che occorra ridefinire ogni volta il criterio che permetta di decidere oculatamente di quale massa di varianti sia lecito non tener conto.
Alla fin fine questa necessità, se venisse davvero considera­ta una necessità, servirebbe a ripristinare l’idea d’un nesso in­dissolubile fra scrittura drammatica e messinscena, la stessa in­dissolubilità – anche se qui riveduta in uno specchio e quindi con la destra al posto della sinistra – che viene supposta quando si immagina il testo fisso una volta per tutte, gravido del suo virtuale spettacolo.
Nella pratica, poi, se lo storico o il filologo dovesse dav­vero diffondersi in una filologia che visita “i magazzini delle posti dalle pagine shakespeariane si riverbera poi anche sui te­sti di quegli autori che hanno provveduto loro stessi a trasfor­mare i propri testi scenici o le proprie sceneggiature in libri.
L’edizione shakespeariana di Wells e Taylor e soprattutto il loro William Shakespeare – A textual Companion mostrano che le principali difficoltà non derivano dallo stato dei documenti, ma dalle abitudini del nostro pensiero. Per escogitare soluzioni ec­dotiche accettabili per Shakespeare occorre riuscire a pensare il testo teatrale secondo modelli assai lontani da quelli cui ci ha abituati quella filologia del mischiaggio che ha sfornato illuso­ri restauri di capolavori come il King Lear.
Nella normale e corretta filologia trova posto il concetto di plurivocità del testo, ma per la filologia drammatica non basta, occorre l’assai più periglioso concetto di “testo mobile” o – se­condo l’ottima proposta di Santoro – di “turbolenza del testo”. Concetto più periglioso, cioè più acrobatico e contraddittorio che non implica soltanto l’idea di redazioni indipendenti, da trattare in edizioni separate, e quindi l’abbandono dell’illusio­ne d’approssimarsi ad un testo unico e definitivo, ma implica quasi l’inesistenza d’un testo, d’un tessuto fissato dietro le sue (aneddotiche) proiezioni sulla pagina. La consistenza del te­sto, la sua identità, sarebbe qualcosa difficile da pensare, qua­si un’astrazione, una particolare struttura del mutamento, come l’identità d’un verbo sotto le sue differenti coniugazioni. Non un solido participio passato, ma invece che un “testo” un “tes­sendo” .
Questa lunga discussione, come dicevo, rischia di falsare al­meno in parte il litfrò di Santoro. Perché in esso le pagine sulla turbolenza del testo teatrale non sono il tema principale, ma il punto di partenza, il nucleo generatore del «viaggio» dell’au­tore (“Ma non vorrei che si pensasse ad esotiche avventure – av­verte nella prima pagina -: il viaggio intorno e all’interno dell’Amleto si è srotolato in realtà fra una mezza dozzina di scaffali e una trentina di ripiani della Biblioteca dello spetta­colo”: si riferisce al Fondo d’Amico di proprietà dell’Università di Lecce, del quale è stato da poco pubblicato il catalago corre­dato da importanti documenti sulla storia dell’Enciclopedia dello Spettacolo, con una presentazione firmata da Nicola Bavarese, ti­tolare della cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo, e dallo stesso Santoro, che prima come «eterno studente», poi co­me borsista e ricercatore ha saputo far uso di quei libri fin dall’inizio, da quando le casse dell’acquistata biblioteca, libri e scaffali, arrivarono a Lecce nel 1971. Cfr. Catalogo del «Fon­do D’Amico» dell’Università di Lecce, Bari, Edizioni Fratelli Laterza, 1992) .
Santoro applica il concetto di turbolenza non solo al testo con le sue varianti, ma alla sua struttura interna, o piuttosto alla sua complessa organicità. L’Amleto, scrive, “è stato proget­tato (o è diventato), come un dispositivo a tre strati: uno fisso e due mobili, ma ancorati al primo”. La tessitura della follia e quella delle riflessioni sul teatro “destabilizzano” la solidità della trama d’una «revenge tragedy».
Il concetto di turbolenza interna del testo teatrale, e quin­di il suo instabile equilibrio o la sua pericolante armonia, in­dica però un principio estensibile a molte altre drammaturgie, dove spesso apparenti incongruenze nel carattere dei personaggi o nello svolgersi dell’azione, certe improvvise curve della peripe-zia, sono (furono) le fonti d’energia per 1finterpretazione atto-rica (e sono invece, in genere, le croci dei registi, dei critici e degli editori). Quasi che il testo letterario drammatico in molti casi, ed in diverse epoche, conservasse un interno disordi­ne, o piuttosto uno stato non pacificato delle cose che è insieme l’orma e il richiamo dfuna fantasia ulteriore.
La turbolenza interna (pp. 27-28) conduce dall!Ameto come esempio limite della natura del testo teatrale dell’Amleto come esempio di un’idea di teatro, attraverso le storie emblematiche del teatro elisabettiano.
La posizione centrale che 1’Amleto occupa sia nella tradizio­ne letteraria che nella cultura degli attori dal XVIII secolo in poi (un caso più unico che raro), fa di questo testo emblematico un luogo di incroci e di scambi. Come efficacemente scrive Stefa­no Ceraci presentando la bella e finora inedita traduzione di Gerardo Guerrieri – 1’Amleto “è la norma teatrale dell’ecceziona­lità”. Aggiunge: “Amleto, epitome scenica delle relazioni tra spettatori ed attori, è però un valore in continua perdita” (Ste­fano Ceraci, Rinoceronti e coccodrilli, prefazione ad Amleto nel­la versione di Gerardo Guerrieri, Roma, Edizioni Stampa Alterna­tiva, 1993, pp. 5-14).
Il punctum del libro di Luigi A.Santoro per me sta a p. 32. Vi si parla di legname. E’ li che c’è quella bizzarra immagine di «teatro nel teatro» che resta a metà fra un’agudeza ed una pa­rabola storica. Santoro ricorda la costruzione del teatro «The Globe», sulla riva”meridionale del Tamigi, aldilà del London Bridge, sùbito fuori della giurisdizione della City, ma dentro alla città, nel 1598. “The Globe” viene costruito utilizzando in parte il legname che proviene dallo smantellamento di “The Theatre”, che James Burbage aveva precedentemente costruito dall’al­tra parte, su un terreno di Giles Allen. Raccontata la vicenda, e arrivato alla costruzione del nuovo teatro col legname del vec­chio, Santoro quasi lamenta la verità documentaria di contratti, compravendite, liti che impedisce all’intreccio d’avvenimenti d’esser pura immagine:
se le contingenze non fossero state così fondate, sa­rebbe stato certamente più facile e più legittimo leg­gere la vicenda del Theatre che viene inglobato dal Globe come le metafora del teatro di Shakespeare. Il rapporto tra Theatre e Globe avremmo così potuto cari­carlo di significati ricchi di fascino, o usarlo come bussola per navigare nel misterioso e affascinante la­birinto delle parole che il drammaturgo di Strafford-on-Avon ci ha lasciato.
E subito aggiunge:
Comunque qualche riflessione avrà di sicuro suggerito a Shakespeare ed ai suoi soci il fatto singolare che i materiali del Theatre si dissolvevano nel Globe, che un teatro cioè contenesse un altro teatro. Le sottolineature sono mie, per indicare che tutto il brano sta fra I1antifrasi e la preterizione e fa esattamente quel che i documenti e l’eccesso di concretezza storica dice gli impediscano di fare: usa come una bussola la materialità del teatro che nella sua sostanza edile sembra perpetuarsi entro un altro teatro, e la lega strettamente, quasi la identifica, con le metafore shake­speariane di «teatro nel teatro».
E’ un’intuizione potente. E un’intuizione sprecata.
Sprecata, perché resta allo stato d’appunto, materiale grezzo nel laboratorio d’un saggista o in quello d’un poeta (Luigi A. Santoro è poeta non dilettante, quindi con solide basi artigiana­li, come dimostra, in questo libro, la qualità della veste ita­liana dei brani citati dall’Amleto, ch’egli si traduce da sé). Un’intuizione che sembra indecisa sulla via da prendere, se quel­la dell’agudeza e del verso, o quella della microstoria.
Ma anche un’intuizione potente come il rinculo per un gran salto.
Nella sua superficie esibisce un carattere inconseguente, che l’autore copre alla bell’e meglio immaginandosi uno Shakespeare che sta immaginandosi quel che lui, l’autore, s’è appena immagi­nato.
Lo stesso carattere d’un’inconseguenza di superficie il libro mantiene da questo punto in poi nel passare da un soggetto all’altro. Il suo debole sono infatti le cerniere: non perché siano fuori posto, ma perché non sono state sufficientemente la­vorate.
La forza gli deriva invece dalla capacità di pensare a modo proprio, dal coraggio di ripercorrere come se fosse la prima vol­ta argomenti trafficatissimi che però riesce a variare, non per l’apporto di nuove nozioni, ma con la tensione d’una logica e d’un’indagine personale.
A p. 33, quando ha appena riassunto le vicende delle costru­zioni e distruzioni di teatri, si chiede: “quali vie può percor­rere il nostro pensiero per cercare di spiegare le ragioni di una attività così frenetica?”. Una domanda molto ben posta, perché questo, aldilà delle accademie e dei sentieri prestigiosi e cal­pestati, è proprio ciò che giustifica lo studio, che se è tale davvero è desiderio: la ricerca di vie adatte tracciate nella ve­rifica dei dati, ma per il nostro pensiero.
La via di questo capitolo conduce l’autore dai teatri, dalle “O” di legno, ai luoghi della memoria studiati dalla Yates o co­struiti, visualizzazione dopo visualizzazione, in libri complessi ed oggi nuovamente apprezzati, il più famoso dei quali è il cin­quecentesco Idea del theatro di Giulio Carni Ilo Delminio (recente­mente riedito a cura di Lina Bolzoni, Palermo, Sellerio, 1991. Ma vedi sull’argomento anche un saggio di Corrado Bologna in “Inter­sezioni”, 3, dicembre 1991, pp. 439-475).
Ed è quasi naturale che questi teatri d’aria e di pensiero conducano ai ludi crudeli della follia e da qui ci spingano nel bosco interno di Amleto.
Non so se sia o no Santoro il primo a notare che 1’Amleto co­mincia fin dalla battuta iniziale con un’inversione. I commenta­tori dell’Amleto sono talmente tanti che non si può mai dire. Co­munque nota acutamente che non è la sentinella ad intimare il “Chi va là” (Who’s there?), ma Bernardo che sta giungendo sugli spalti, ed ha evidentemente un soprassalto quando vede la senti­nella che sta semplicemente al posto suo. E’ il primo, per ora quasi fuggevole segno che le cose nel loro apparente ordine mili­tare son già fuori squadra. Segno che lassù Bernardo teme qualco­sa, non certo l’agguato nemico, che non potrebbe essere, ma l’ag­guato dell1Aldilà, del fantasma, come sapremo subito e vedremo.
Le pagine che Santoro dedica allo scavo di questa scena (pp.57-61) sono fra le più istruttive del libro e ci introducono a quel che prima chiamavo il «gran salto»: 1! idea d’una «mac­china» che lavora la mente dello spettatore-lettore, la assorbe e poi la muta poco a poco, conducendola ad un’esperienza che su­pera i problemi estetici e di studio e si risolve in quelle do­mande che ciascuno fortunato lui se riesce a porsele di tanto in tanto, almeno sei o undici volte nella vita. Su di sé, scoprendo il proprio sgomento, banalissimo e fondamentale.
Capiamo così che la presenza del Chisciotte, e quel passo an­cora grezzo sul legname, non sono delle mende, che si potrebbero cancellar via dal libro, ma sono gli inneschi di mine che l’auto­re non ha ancora fatto brillare.
L’idea più sottile del Chisciotte è anche materialità carta­cea, i suoi mondi uno dentro l’altro si propagano fino all’ogget­to che abbiamo in mano, al libro stampato oggi. Palpandolo stiamo toccando, non solo leggendo, qualcosa di mutante, un effetto del­la macchina fabbricata da Cervantes non importa quanti anni fa. Equivalente è il teatro che contiene materialmente un altro tea­tro, il legno che ha una memoria, la forma dell’edificio, ma an­che della mente, che traduce la sua struttura in uno dei due o tre più famosi testi di «teatro nel teatro».
Mi pare che nel libro di Santoro, o meglio: nel pensiero che sta alla sua radice, questi siano elementi necessari e fondanti proprio per la loro materialità. In questa materialità che è sto­ria concretissima, fabbrica ed esperienza fisica, dovrebbero in­nervarsi gli altri labirinti, quelli dell’epoca con i suoi temi ricorrenti e quelli dell’opera, fino a creare un mondo completo e compatto, una presenza intera, che non lasci scampo ai dualismi fra immaginazione e realtà, spirito e corpo. Fino ad intravedere lo stato non visibile delle cose, dove spariscono i contorni fra realtà e finzione che poi altro non sono che un’ombra edulcorata di quelli che distinguono ciò che chiamiamo «vita» e ciò che al contrario diciamo «morte».
E’ questo – suggerisce Santoro nella pagina che secondo me conclude il libro, benché sia di fatto seguita dall’appendice “Visita a Don Chisciotte” – è questo il significato profondo dell’insegna del Globe, l’antico “Totus mundus agit histrionem”, con Atlante che nella bandiera in cima al teatro regge il mappa­mondo :
E noi, comparse o spettatori, sulla scena o di fronte alla scena, noi confusi e frastornati da un delirio di finzioni consumate su scene che riflettono altre scene, noi schegge di riflessi ora sappiamo che “thè rest is silence”. E, tuttavia, davanti alla morte c’è sempre un particolare fuori posto, un eccesso insignificante. Co­me una mosca che solletica le labbra pallide, o l’alone d’un sorriso che l’ombra non è riuscita a gelare, o una spalti, ed ha evidentemente un soprassalto quando vede la senti­nella che sta semplicemente al posto suo. E1 il primo, per ora quasi fuggevole segno che le cose nel loro apparente ordine mili­tare son già fuori squadra. Segno che lassù Bernardo teme qualco­sa, non certo l’agguato nemico, che non potrebbe essere, ma l’ag­guato dell1Aldilà, del fantasma, come sapremo sùbito e vedremo.
Le pagine che Santoro dedica allo scavo di questa scena (pp.57-61) sono fra le più istruttive del libro e ci introducono a quel che prima chiamavo il «gran salto»: 1! idea dfuna «mac­china» che lavora la mente dello spettatore-lettore, la assorbe e poi la muta poco a poco, conducendola ad un’esperienza che su­pera i problemi estetici e di studio e si risolve in quelle do­mande che ciascuno fortunato lui se riesce a porsele di tanto in tanto, almeno sei o undici volte nella vita. Su di sé, scoprendo il proprio sgomento, banalissimo e fondamentale.
Capiamo cosi che la presenza del Chisciotte, e quel passo an­cora grezzo sul legname, non sono delle mende, che si potrebbero cancellar via dal libro, ma sono gli inneschi di mine che l’auto­re non ha ancora fatto brillare.
L’idea più sottile del Chisciotte è anche materialità carta­cea, i suoi mondi uno dentro l’altro si propagano fino all’ogget­to che abbiamo in mano, al libro stampato oggi. Palpandolo stiamo toccando, non solo leggendo, qualcosa di mutante, un effetto del­la macchina fabbricata da Cervantes non importa quanti anni fa. Equivalente è il teatro che contiene materialmente un altro tea­tro, il legno che ha una memoria, la forma dell’edificio, ma an­che della mente, chaitraduce la sua struttura in uno dei due o tre più famosi testi di «teatro nel teatro».
Mi pare che nel libro di Santoro, o meglio: nel pensiero che sta alla sua radice, questi siano elementi necessari e fondanti proprio per la loro materialità. In questa materialità che è sto­ria concretissima, fabbrica ed esperienza fisica, dovrebbero in­nervarsi gli altri labirinti, quelli dell’epoca con i suoi temi ricorrenti e quelli dell’opera, fino a creare un mondo completo e compatto, una presenza intera, che non lasci scampo ai dualismi fra immaginazione e realtà, spirito e corpo. Fino ad intravedere lo stato non visibile delle cose, dove spariscono i contorni fra realtà e finzione che poi altro non sono che un’ombra edulcorata di quelli che distinguono ciò che chiamiamo «vita» e ciò che al contrario diciamo «morte».
E’ questo – suggerisce Santoro nella pagina che secondo me conclude il libro, benché sia di fatto seguita dall’appendice “Visita a Don Chisciotte” – è questo il significato profondo dell’insegna del Globe, l’antico “Totus mundus agit histrionem”, con Atlante che nella bandiera in cima al teatro regge il mappa­mondo :
E noi, comparse o spettatori, sulla scena o di fronte alla scena, noi confusi e frastornati da un delirio di finzioni consumate su scene che riflettono altre scene, noi schegge di riflessi ora sappiamo che “thè rest is silence”. E, tuttavia, davanti alla morte c’è sempre un particolare fuori posto, un eccesso insignificante. Co­me una mosca che solletica le labbra pallide, o l’alone d’un sorriso che l’ombra non è riuscita a gelare, o una piega di silenzio che sospira, che trattiene un lamen­to.
E1 fra questi orli sfumati che si dissolve il teatro e riprende a palpitare la vita: tra gli sguardi incerti e le andature traballanti degli spettatori che cercano l’uscita. Ci trasciniamo fuori dal teatro col peso di­sarmante di un sogno. Fuori la luna e una spruzzata di brina accendono l’insegna del Globe.
Uno scrittore che sa pensare cosi l’ultima pagina del suo li­bro, a metà fra ricapitolazione e racconto, fra storia ed auto­biografia, meriterebbe di scriverlo ancora una volta.
Ef un libro molto stimolante. Ma non basta. In molti punti quasi offre al lettore i pezzi per un «fai da te».
Libri come questo, preziosi e non lavorati fino in fondo, in­vitano al saccheggio, che tanto resterebbe indimostrato. Ed è in­giusto. Dire che sarebbe bello se l’autore tornasse a scriverlo curando le cerniere ed osando rendere espliciti i nessi e le idee che legano una parte all’altra, non confidando sulla semplice contiguità delle tematiche, non è un giudizio negativo. E riscri­verlo non sarebbe altro che onorevole testardaggine da contadino, che non molla la sua terra finché non ha dato tutti i frutti che può. Non è mica detto che siano solo i romanzieri, o solo i medi o grandissimi lombardi, ad aver la prerogativa di scrivere lungo una vita sempre lo stesso libro.
Ferdinando Taviani