Simonov: Il metodo delle azioni fisiche

Nota al testo

La storia del testo che segue è lunga e avventurosa. La parte che mi è nota comincia nei primi anni ’70. Alessandro D’Amico mi aveva chiesto di curare le dispense del corso sull’attore nel ‘900 che aveva svolto presso l’Università di Lecce. Fra i materiali che mi fornì per la parte antologica c’era un libretto con la copertina rosa sbiadito. La carta era scadente e il testo era in russo. Riuscivo a capire soltanto che l’autore era un certo Simonov, la data di edizione era il 1962, il luogo di edizione Mosca e che doveva trattarsi di un’opera sul metodo di  Stanislavskij;  il titolo era, infatti,  Metod K. S. Stanislavskogo i fisiologija emocij.
Mi disse che l’aveva avuto da Gerardo Guerrieri e che forse poteva essere utile al mio lavoro coi ragazzi disabili. Mi battevo, allora, insieme al gruppo dell’AIAS di Cutrofiano per strappare i ragazzi dagli istituti e dalle classi speciali e inserirli nella scuola comune. Mi misi alla ricerca di qualcuno che almeno mi traducesse l’indice. Non fui fortunato. Il libretto sprofondò nella zona morta del mia biblioteca.
Quando, alcuni anni dopo, la docente di Russo del nostro Ateneo, Alizia Romanovich, si disse disposta a farmi una specie di riassunto, per recuperare il testo fui costretto a perlustrare palmo a palmo tutti gli scaffali.
Il testo passò tra le mani della sua assistente. Dopo molto tempo mi furono recapitate: una sintesi dell’intero volume e la traduzione di due capitoli. Il tentativo di conquistare una traduzione completa attraverso una studentessa che voleva fare una tesi su Stanislavskij provocò la scomparsa del testo in russo e della sintesi. Per fortuna i due capitoli che  mi sembrava potessero interessare la gente del teatro erano stati tradotti da una collaboratrice della docente di russo,  Gloria Politi ed erano rimasti in un floppy e, dopo numerose rivisitazioni, forse potevano essere utilizzati per la pubblicazione in In Corso d’ Opera.
Nel ringraziare Alessandro D’Amico ed Alizia Romanovich, io e l’autrice della traduzione chiediamo perdono al lettore per non aver potuto contestualizzare i due capitoli che pubblichiamo nell’insieme della trattazione di Simonov e per la traduzione approssimativa di alcuni termini tecnici relativi alla fisiologia del cervello. Per ragioni di leggibilità abbiamo preferito rendere le sottolineature del testo col grassetto. Siamo convinti, ad ogni modo, che la lettura dei due capitoli del volume di Simonov può essere utile per avviare una riflessione anche sui problemi connessi all’uso del teatro come terapia.

Presentazione

Il testo di Simonov, come il lettore potrà verificare, non è rivolto, almeno in prima istanza, a operatori o studiosi di teatro. E’ lo studio di un neurofisiologo che ha come obiettivo dichiarato quello di verificare fino a che punto il sistema di Stanislavskij possa essere utilizzato in protocolli terapeutici di alcune patologie psichiche. Ma forse proprio per questo può costituire un utile materiale di riflessione sui fondamenti biologici del lavoro del grande maestro russo e, comunque, contribuire a chiarire alcuni interrogativi connessi alle fonti della cultura stanislavskiana.
Ancora una quindicina di anni fa, Fausto Malcovati, nell’introduzione a Il lavoro dell’attore sul personaggio, notava che “il discorso sulle fonti della cultura stanislavskiana è fondamentale e andrebbe fatto con estrema serietà: un lavoro che aspettiamo dai colleghi sovietici, che hanno sotto mano, per esempio, la biblioteca del regista, e, negli archivi, grandi quantità di citazioni, stralci da letture ecc.”.
Il lavoro di Simonov, in ordine a questo problema non ci è di molto aiuto.
Il suo taglio è perentorio:
“Per Stanislavskij è scontato il predominio del conscio sull’inconscio. Per molti psicologi idealisti occidentali (per esempio S. Freud), l’inconscio emerge come principale forza motrice delle azioni umane.
Sebbene la coscienza, condizionata dalla vita sociale dell’uomo, reprima in modo artificioso le attitudini istintive inconsce, queste si insinuano attraverso gli ostacoli ad esse contrapposti e si manifestano in tutta la loro potenza primordiale.
L’inconscio, nei lavori di questo tipo di psicologi, è una cosa disorganica, indipendente dall’uomo, inconoscibile. La tendenza di Stanislavskij a ‘pilotare’ l’involontario, a ‘innescare e disinnescare’ di proposito i meccanismi fisiologici involontari (inconsci), dimostra in modo lampante la posizione ideologica e metodologica dell’autore del ‘sistema’. Lo slogan di Stanislavskij : <<Dal conscio al controllo dell’inconscio>> è nettamente contrapposto all’interpretazione dell’inconscio che troviamo nelle opere degli psicologi idealisti.”.
Non si pone, pertanto, alcuna questione relativa alla necessità di “una revisione e una uniformazione dei termini più correnti […] a tutto vantaggio della comprensione e della attualità dei testi.” , per Simonov, l’uso di termini senza troppa preoccupazione per la loro pertinenza da parte di Stanislavskij, si potrebbe giustificare semplicemente con quanto lo stesso Stanislavskij scrisse ad Angarov, membro della Ceka, nel febbraio del 1937 e che lo stesso Malcovati riporta nella citata introduzione:
“Il mio libro – aveva scritto Stanislavskij –  non ha pretese scientifiche. Il mio scopo è esclusivamente pratico. Voglio insegnare agli attori principianti un corretto approccio all’arte […]La terminologia da me adottata in questo libro non è inventata da me, bensì presa dalla pratica, dal linguaggio degli allievi e principianti [La loro terminologia è valida in quanto comprensibile a tutti coloro che si avvicinano all’arte. […] E’ vero utilizziamo anche termini scientifici (incoscio, intuizione) ma li utilizziamo nel senso più semplice, corrente. […] Io non amo gli attori che per mostrarsi intelligenti si occupano di cose di cui non sanno nulla, e si mettono a sentenziare su questioni scientifiche da dilettanti. Che ciascuno si occupi del proprio campo.” .
Ma Stanislavskij non si limita a dire soltanto questo. Le altre cose che afferma e gl’interrogativi che pone ci spingono all’interno di un irriducibile paradosso: se la creazione artistica sfugge al dominio della coscienza, come può l’attore procedere <<dal conscio al controllo dell’incoscio>>?
Tutta la lettera del regista ad Angarov è pervasa da due preoccupazioni. Da una parte mira a circoscrivere tutta l’attività teatrale, compreso il percorso di reviviscenza dell’attore, nell’ambito dell’arte. E’ un territorio che autorizza e legittima la convinzione che il processo creativo avvenga anche al di fuori, o indipendentemente, dal controllo della coscienza: “Quando qualche cosa di interiore (l’inconscio) si impossessa di noi, non ci rendiamo conto di ciò che succede. E’ dagli altri che l’attore viene a sapere che cosa ha fatto in scena in quei momenti. Sono i migliori momenti del nostro lavoro. Se ci rendessimo conto delle nostre azioni in quei momenti, non le compiremmo nel modo in cui le compiamo.” .
Di passata, possiamo notare che alle stesse conclusioni era giunto Jung in un saggio del 1922, La psicologia analitica e l’arte poetica, pubblicato nel dicembre del 1930 in una raccolta dal titolo Seelenprobleme der Gegenwart: “Fintanto che noi siamo presi dalla forza creatrice, non vediamo e non conosciamo nulla, non ci è concesso neppure di conoscere, poiché nulla è più pernicioso e pericoloso, in quel momento della conoscenza. Per poter conoscere, bisogna uscire dal processo creatore e considerarlo dal di fuori; solo allora esso diviene un’immagine che esprime significati.” .
Parrebbe quasi che Stanislavskij abbia utilizzato le affermazioni di Jung riferite all’arte per definire la natura dell’arte teatrale e, in particolare, alla creatività dell’attore.
L’altra preoccupazione riguarda l’accusa di misticismo. “Sono d’accordo con Lei – scrive – che nel processo creativo non c’è nulla di misterioso o mistico e che bisogna parlar chiaro.”, tuttavia, conclude “Devo parlare di queste cose agli attori e agli allievi, ma come fare per non essere accusato di misticismo?”.
Naturalmente il paradosso non risiede nella pratica teatrale. Stanislavskij sa bene che qualsiasi percorso che si spinge oltre i limiti concessi ad un’attività artigianale – artistica, com’è quella teatrale, rischia d’incappare in un campo minato; sia che entri nel territorio evanescente delle ricerche sulla psiche, che allora appariva saldamente presidiato dagli psicologi idealisti, sia che si sporga nel territorio della psico – fisiologia in cui, proprio l’anno prima la stesura della lettera, era stata scavata la tomba per gli studi di Vygotskij e Lurija sulla relazione fra linguaggio e comportamento.
In realtà la zona della psico – fisiologia dopo qualche anno sarebbe stata meno a rischio poiché molte delle intuizioni e delle ipotesi di Vygotskij saranno riprese da Pavlov nel suo lavoro sul ‘secondo sistema di segnalazione’ e il lavoro dello scienziato dei riflessi condizionati non sarà toccato dalle purghe staliniane.
Al momento in cui scrive la lettera era assai più prudente stare alla larga dalla scienza dell’anima come da quella del corpo e mettersi al riparo della pratica e del buon senso. Per questo, probabilmente, dopo aver riconosciuto che nel processo creativo non c’era nulla di misterioso o mistico e che l’attore doveva sapere che era opportuno parlar chiaro, chiedeva al suo interlocutore di convenire sul fatto che: “nel momento della creazione, di fronte alla ribalta illuminata e alla folla di migliaia di spettatori, penso se lo possa anche dimenticare.”. In altre parole, quello che emerge dagli scritti, ma soprattutto dai comportamenti di Stanislavskij, è una grande pignoleria nel lavoro con gli attori sullo sfondo di un totale eclettismo per gli strumenti e i risultati delle ricerche più disparate nella scienza come nell’arte.
Il testo di Simonov, almeno i due capitoli che possiamo leggere per intero, rovesciano il punto di vista: sono i risultati del lavoro di ricerca del regista che vengono assorbiti all’interno della pratica terapeutica e del campo delle ricerche di neurofisiologia “il metodo di Stanislavskij – afferma con forza Simonov – è di eccezionale interesse per i neurofisiologi moderni. Un’analisi psicologica approfondita delle tecniche elaborate da K. S. Stanislavskij agevolerà lo studio dei meccanismi delle reazioni emotive dell’uomo, la corretta valutazione del problema della «spontaneità» e delle questioni relative alla regolazione corticale delle funzioni vegetative. Dagli straordinari espedienti di un grande artista alla conoscenza dei meccanismi neurofisiologici, alla loro considerazione dal punto di vista della teoria generale della regolazione e, infine, alle «equazioni matematiche delle emozioni» – questo il cammino che si apre davanti ai ricercatori d’oggi.”. E che questo programma sia stato portato avanti anche col supporto delle nuove tecnologie, lo possiamo rilevare dai lavori dello stesso Simonov, e dai contributi di altri neurofisiologi russi.
Le conclusioni del neurofisiologo si collocano all’opposto di quelle di Jung e, per altri versi, di Stanislavskij. L’autonomia del campo artistico rispetto a quello scientifico si dissolve: “La mente umana conserva numerosi esempi di come l’occhio acuto di un artista abbia notato nei fatti della realtà circostante nessi e relazioni che solo in seguito sono divenuti patrimonio della scienza. Le basi matematiche delle proporzioni nel corpo umano e nelle opere degli scultori e degli architetti dell’antica Grecia, l’intuizione di Honoré de Balzac sulla circolazione nel sangue di particolari sostanze sinergiche (ormoni), le leggi della percezione del suono e del colore sfruttate empiricamente in musica e in pittura ne sono una conferma convincente. Non ci troviamo forse sulla soglia di un’epoca in cui la scienza e l’arte, sempre più spesso, congiungono volutamente i loro sforzi nella grande opera di utilizzazione di una Natura inesauribile?”.
Quello che prima della nostra epoca era separato da un lasso temporale più o meno lungo – l’arte ha anticipato “nessi e relazioni che solo in seguito sono divenuti patrimonio della scienza” – nel XX° secolo si ricongiunge, l’intuizione si condensa immediatamente nell’equazione, le emozioni sono traducibili nello scambio elettrochimico fra le cellule nervose, la reviviscenza è simile all’ipnosi:
“La ricerca sperimentale della reviviscenza scenica ci avvicina alla conoscenza dei meccanismi degli stati nevrotici, mentre il metodo delle azioni fisiche è davvero in grado di arricchire l’arsenale della psicoterapia. Lo studio del metodo di Stanislavskij fa apprezzare in modo nuovo il ruolo motore nei meccanismi di ipnosi . Per sua natura lo stato ipnotico è di gran lunga più simile alla reviviscenza scenica che non al sonno naturale. Poiché le componenti motorie sono assolutamente vincolanti per la realizzazione della reviviscenza scenica, ci preme chiarire il ruolo degli elementi motori nel meccanismo della suggestione ipnotica.”.
L’approccio di Simonov sembra dunque orientato a rileggere tutta l’opera di Stanislavskij sullo sfondo della materialismo e della dottrina di  I. P. Pavlov e ci sarebbe più di una ragione per giustificare questa scelta. Simonov è uno scienziato che si occupa di neurofisiologia e, nel periodo in cui scrive il suo saggio, nell’Unione Sovietica le idee di Pavlov costituiscono ancora l’ortodossia.
Gli stessi risultati delle ricerche condotte sul rapporto tra cervello e comportamento sembrano suffragare l’ipotesi che il pensiero e le emozioni non esistono se non in stretto rapporto con la dimensione biologica e, pertanto, i meccanismi che li producono sono governati dalle leggi oggettive che governano i fenomeni fisici e biologici. Non ci sono le condizioni di apertura ideologica e nemmeno strumenti adeguati di critica allo scientismo totalizzante per rendere accettabile l’idea che nessuna massa di dati messa a punto dai neuroscienziati può essere sufficiente a spiegare la natura del pensiero e delle emozioni.
D’altra parte, occorre attendere gli anni ’90 per incontrare  uno scienziato che propone di “reintegrare la mente nella natura” e si prefigge di trovare “i fondamenti biologici della psicologia”, ma riconosce anche che “Forse ciò che caratterizza nel modo più straordinario gli esseri umani coscienti è l’arte – la capacità di esprimere sensazioni e sentimenti in modo simbolico e formale, di convogliarli in oggetti esterni quali una poesia, un dipinto, una sinfonia. I metodi di analisi scientifica non si applicano a quella sintesi di stati coscienti, vincolata dalla storia, dalla cultura, dalla preparazione specifica e dall’abilità, che si concretizza nelle opere d’arte. Di nuovo, questo rifiuto non è mistificatorio, poiché per interpretare questi oggetti e per reagire ad essi è necessario fare riferimento a noi stessi in modo simbolico e sociale. Non c’è analisi esterna, oggettiva – ammesso che sia fattibile – che possa sostituire le reazioni di un individuo e le relazioni di scambio tra individui che hanno luogo entro una data tradizione e cultura.”. .
A Simonov rimane allora una sola soluzione per salvaguardare le zone eterodosse del lavoro di Stanislavskij (e suo): appellarsi al buon senso e alle effettive necessità dell’attore. Ricorre, cioè, esattamente agli stessi ‘artifici’che aveva utilizzato Stanislavskij nella lettera ad Angarov: “L’attore reciterà meglio e in maniera più convincente se conoscerà i meccanismi fisiologici delle emozioni? Noi crediamo di no. L’attore deve studiare la fisiologia del sistema nervoso centrale? Magari per un ampliamento del suo orizzonte. Ma la moderna fisiologia può e deve dimostrarsi utile per la giustificazione scientifica del programma formativo dei futuri attori, per l’analisi profonda dei fondamenti teorici del mestiere d’attore, per l’elaborazione di una serie di problemi critici e attuali sulla gestione del teatro sovietico.”.
E’ una conclusione basata sul compromesso. Da una parte rimane indiscutibile l’idea che il comportamento dell’uomo è il risultato (quindi è determinato) da una sequenza complessa di meccanismi fisiologici che agiscono a diversi livelli del sistema nervoso periferico e centrale. Dall’altra non si esclude (e non si spiega) la possibilità di innescare e, in certa misura, governare questi meccanismi attraverso stimoli organizzati e finalizzati. In questa prospettiva il testo drammatico costituirebbe per l’attore un progetto di azioni sostenute e motivate da una trama di emozioni tessuta coi materiali della sua esperienza. Ma perché l’attore sia in grado di realizzare quel progetto, è sufficiente che conosca il funzionamento del sistema nervoso centrale? Che cosa comporta il fatto che sappia che le facoltà riflessive e logiche trovano posto a livello di corteccia, mentre emozioni e sentimenti si concentrano nel sistema libico e gli istinti nella parte più antica del cervello, nell’ipotalamo? Più in dettaglio: che tipo di aiuto può avere se si crea un’immagine mentale di uno stimolo che migra dal prosencefalo, attraverso l’ipotalamo e il talamo, verso i sei strati di cellule della neocorteccia, mentre il locus ceruleus  informa la corteccia, utilizzando come neurotrasmettitore la noradrenalina, dell’arrivo di uno stimolo nuovo e il nucleo peduncolo – pontino del tegmento (PPT), di concerto col telencefalo basale, utilizzando l’acetilcolina, segnalano la rilevanza dello stimolo?
Almeno fino agli anni ’70 “Sembrava dunque possibile – soprattutto nell’ipotalamo – localizzare centri precisi in corrispondenza di comportamenti determinati” , sembrava cioè che le “equazioni matematiche delle emozioni” di cui parlava Simonov fossero a portata di mano. Meglio, a portata di strumenti che promettevano la possibilità di guardare dentro un cervello in vita, in attività.
Purtroppo le tecniche di brain imaging non hanno mantenuto le promesse e rivelano ogni giorno agli stessi neuro scienziati limiti insuperabili in ordine alla ricerca sulla natura dell’attività cerebrale. E non si tratta di limiti legati allo sviluppo inadeguato delle tecnologie, ma alla stessa impostazione delle ricerche.
Già Hinde e Stevenson avevano riconosciuto che “le zone dove le stimolazioni elettriche producono effetti particolari non sono affatto circoscritte in regioni determinate del cervello. Sembra piuttosto che ciascun comportamento possa essere provocato da un gran numero di zone e che quelle che corrispondono a comportamenti differenti si sovrappongano ampiamente. Il controllo di ogni comportamento dipende dunque da un gran numero di zone del cervello e stimolazioni simili o lesioni identiche non avranno nella regione A lo stesso effetto che hanno nella regione B. Peggio ancora, sembra ora che la funzione di una determina zona possa cambiare coll’esperienza.”. La stessa utilità della risonanza magnetica funzionale (fMRI), basata sul differente comportamento delle molecole di emoglobina che hanno ceduto ossigeno da quelle ossigenate all’interno di un forte campo magnetico, viene messa in discussione dalla constatazione che quando una persona prova una emozione o è impegnata in un’attività conoscitiva non si ‘accende’ una sola zona del cervello, ma vengono coinvolte contemporaneamente diverse zone e non tutte appartenenti alla stessa area (corticale, libica, ecc.). L’ambizione di realizzare una corrispondenza biunivoca tra zone cerebrali e attività psichiche attraverso la fotografia dei neuroni che si ‘accendono’, è una via senza sbocco. Esperimenti recenti finalizzati a registrare l’attività elettrica di singoli neuroni, come quelli condotti da Nikos Logothetis de Max Plank Institut di Dubinga, sembra dimostrare l’infondatezza del presupposto della fMRI, infatti le cellule neuronali sono in grado di elaborare informazioni e partecipare attivamente alle attività cerebrali anche quando sono inattivi elettricamente.
Non è, allora, nella direzione della messa a punto delle “equazioni matematiche delle emozioni”, o della fotografia dei processi cerebrali, o della mappatura degli istinti e della infinita varietà di sentimenti e pensieri su zone che rivelano confini labili e configurazioni instabili che è possibile e produttivo utilizzare il metodo di Stanislavskij e altrettanto improduttiva appare la via

IL METODO DELLE AZIONI FISICHE

A differenza dell’arte della rappresentazione, che si limita a ritrarre i tratti visibili di un’emozione, l’arte della reviviscenza esige dall’artista “la verità delle passioni”, cioè la riproduzione volontaria di stati d’animo autentici mediante l’adattamento dei sentimenti dell’attore-interprete alle emozioni del personaggio. Si è già minuziosamente esaminata la questione del perché K. S. Stanislavskij  insista sulla necessità della reviviscenza scenica, e si è tentato di dare una giustificazione fisiologica al ruolo che la stessa assume nell’attività dell’attore. Ora, la ricerca ci ha condotti all’analisi degli strumenti e delle tecniche attraverso cui l’artista può suscitare, in se stesso, i sentimenti corrispondenti alle emozioni del personaggio da lui interpretato.
Sulla base di una vasta esperienza teatrale, K. S. Stanislavskij giunge alla conclusione che è impossibile riprodurre in modo immediato gli stati d’animo. Il tentativo dell’attore di interpretare un sentimento profondo, coinvolgente, porta in modo inevitabile all’affettazione, ad uno sforzo inutile, ad una violenta perversione del proprio sentire. Se lo status di un particolare slancio emotivo viene rapportato a momenti isolati, quando i sentimenti del personaggio facilmente e liberamente sono fatti propri dall’interprete, l’attore tende a suscitare in sé questa condizione impercettibile dell’ispirazione creativa. Ahimè! Gli impulsi fisici, l’emozione incontrollata dell’attore si presentano, troppo spesso, come unici risultati di simili tentativi. Ma qual è la causa dell’impossibilità di una riproduzione immediata dei sentimenti? In pieno accordo con i dati della scienza moderna, Stanislavskij la individua nella spontaneità delle reazioni emotive. Le passioni sorgono per effetto dell’ambiente circostante, non sono soggette a regole o a costrizioni – sostiene Stanislavskij. “Molti dei più importanti aspetti della nostra complessa natura non sono soggetti ad un controllo cosciente”. Senza l’aiuto della natura “possiamo solo in parte, e non del tutto, dominare il nostro difficilissimo sistema di creazione della reviviscenza e della personificazione” (Il lavoro dell’attore, 1938, pag. 341). Stanislavskij invita gli attori a non confidare nei momenti sporadici dell’ispirazione, che nascono indipendentemente dalla volontà e dal desiderio dell’artista, giacché l’ispirazione è un’ospite alquanto inaffidabile.
Però proprio l’ispirazione, quella condizione dello slancio creativo nota ad ogni attore, persuadeva Stanislavskij dell’esistenza della possibilità di riprodurre intenzionalmente le emozioni. Nella vita i nostri sentimenti di gioia, dolore, ira, pietà hanno sempre una motivazione, sono una nostra reazione ad avvenimenti in corso, ad azioni di persone a noi vicine. Quando l’artista va in scena, non ha, in quanto uomo, motivo di rallegrarsi o infuriarsi, di scandalizzarsi o affliggersi. Questi motivi mancano proprio nel momento in cui, in seguito ad un insieme di circostanze fortuite, nell’artista compare la condizione dell’ispirazione creativa. E, tuttavia, se è ispirato, l’artista comincia a vivere i sentimenti originali del personaggio che sta  interpretando, a provare la sua gioia, il suo dolore. I momenti dell’ispirazione creativa confermano una certa autonomia dei meccanismi delle reazioni emotive; cioè tali reazioni possono verificarsi in assenza di motivi che toccano direttamente l’interprete, che lo fanno gioire o soffrire. Anche se i meccanismi dei sentimenti non sono soggetti a controllo nella misura in cui lo sono i meccanismi della gestualità, l’importante è che esistano oggettivamente, che possano essere “veicoli in moto”,  il problema consiste solo nel come “innescare” questi meccanismi oggettivamente esistenti. K. S. Stanislavskij ha sottolineato col termine “subconscio” l’insieme dei meccanismi che formano la base fisiologica delle emozioni, evidenziando con questo termine la loro indipendenza dalla volontà, la loro inaccessibilità all’influenza diretta dei segnali verbali.
Il “subconscio” non aveva per Stanislavskij mai sfumature mistiche e trascendenti. Per chi conosce i lavori del grande artista, non gli è difficile convincersi che “conscio” e “inconscio” in Stanislavskij  diventano “spontaneo” e “involontario”. La spontaneità, cioè l’accessibilità ad una riproduzione volontaria – ecco il criterio mediante cui effettuava una certa distinzione tra conscio e inconscio. Il concetto di “inconscio” riflette qualità empiriche manifeste dell’attività dei vari meccanismi fisiologici del cervello umano. Tutti i tentativi di rivolgere a Stanislavskij l’accusa di enfatizzare il ruolo dell’inconscio sanciscono in sostanza la negazione di peculiarità interagenti fra il primo e il secondo sistema di segnali, all’atto della regolazione delle funzioni motorie e vegetative dell’organismo. Per Stanislavskij è scontato il predominio del conscio sull’inconscio. Per molti psicologi idealisti occidentali (per esempio S. Freud), l’inconscio emerge come principale forza motrice delle azioni umane. Sebbene la coscienza, condizionata dalla vita sociale dell’uomo, reprima in modo artificioso le attitudini istintive inconsce, queste si insinuano attraverso gli ostacoli ad esse contrapposti e si manifestano in tutta la loro potenza primordiale. L’inconscio, nei lavori di questo tipo di psicologi, è una cosa disorganica, indipendente dall’uomo, inconoscibile. La tendenza di Stanislavskij a “pilotare” l’involontario, a “innescare e disinnescare” di proposito i meccanismi fisiologici involontari (inconsci), dimostra in modo lampante la posizione ideologica e metodologica dell’autore del “sistema”. Lo slogan di Stanislavskij : “Dal conscio al controllo dell’inconscio” è nettamente contrapposto all’interpretazione dell’inconscio che troviamo nelle opere degli psicologi idealisti.
Uno studio attento dei momenti di ispirazione degli attori convinse Stanislavskij della possibilità di una riproduzione volontaria dei sentimenti. Contemporaneamente giunse alla conclusione che tale possibilità non si può realizzare per tentativi tesi a suscitare in modo immediato e diretto un dato sentimento. Sorse il problema di stimolare in modo mediato, indiretto quei meccanismi fisiologici posti alla base del patrimonio emotivo.
Il materiale di partenza di cui dispone l’artista quando entra nella parte del personaggio in scena è materiale verbale. E’ costituito dal testo della pièce, dai suggerimenti del regista, dalle informazioni sui protagonisti, sugli avvenimenti, sull’epoca attinti da argomentazioni e libri. Indubbiamente, il vero artista ha una vasta disponibilità di percezioni di vita dirette, ma tuttavia queste devono essere organizzate da una funzione verbale concreta, “sovrapposte” al tipo letterario del personaggio. Sappiamo che il cammino della stimolazione dei segnali verbali sulla sfera emotiva passa attraverso la riproduzione della situazione per cui uno stato emotivo si presenta in modo tipico. I segnali verbali devono essere trasformati in rappresentazioni sensoriali immediate, mentre i motivi offerti alla pièce devono divenire realtà sensoriale, in cui vive e agisce il personaggio interpretato dall’attore.
Se la forza d’immaginazione dell’artista  non è sufficientemente grande, non sarà facile per lui riprodurre in forme, visive, uditive, tattili tutto ciò che narra il testo della pièce. Tanto più che la sua immaginazione entra sempre in conflitto con la naturale realtà circostante: davanti a lui, al posto di Ofelia c’è la partner Mar’ia Vasil’evna Ivanova, le mura del castello si trasformano in un telone colorato, e lui stesso, a differenza del principe danese, è giunto in teatro col metrò e dopo le prove deve partecipare ad una riunione di sindacato. Ma la scena è il luogo in cui la finzione si fonde con la realtà, in cui si manifesta una combinazione strabiliante di simulazione e di verità, in cui l’artista Petrov è quasi del tutto simile ad Amleto. E’ il campo d’azione di Amleto-Petrov, la struttura della loro attività motoria nello spazio e nel tempo scenico.
Ogni personaggio della pièce è prima di tutto un protagonista che esegue azioni precise in conformità alle condizioni create dal drammaturgo. La realizzazione degli atti del personaggio interpretato, secondo il pensiero di Stanislavskij, deve diventare il compito principale dell’artista. Non “trarre” da sé stesso sentimenti che in un dato momento neanche esistono, ma agire in modo corretto e coerente, ecco a cosa Stanislavskij chiama l’artista. Nel campo delle azioni fisiche tutto è accessibile al controllo della coscienza, qualsiasi atto può essere riprodotto quante volte si desidera, indipendentemente dallo stato d’animo dell’artista, dal casuale cambiamento del suo umore. L’evidenza, la “tangibilità” delle azioni fisiche porta l’attore nella sfera di vita del personaggio interpretato, lo aiuta a prescindere dalle preoccupazioni e dalle ansie personali, da pensieri estranei, da tutto ciò che attira l’uomo-artista fuori dall’attività scenica.
I percorsi nervosi innati e acquisiti, con un gran numero di diramazioni, collegano le azioni fisiche alle emozioni, alle infinite, molteplici sfumature del sentire umano. Le azioni fisiche non solo rievocano tracce di emozioni vissute indietro nel tempo, ma contemporaneamente verificano su se stesse l’effetto opposto dell’esperienza di vita da esse risvegliata, diventano più verosimili, sempre più adeguate alle situazioni date. Questa limatura, il ritocco delle azioni fisiche non richiede particolari sforzi da parte dell’attore. Un’esperienza di vita, fissata in un’infinita quantità di legami condizionati-inconsci, conferisce alle azioni fisiche quell’aspetto definitivo che in date circostanze devono avere.
Nella creazione del suo straordinario metodo, K. S. Stanislavskij partì dal riconoscimento dell’indissolubilità dialettica di ciò che soggettivamente si sente e ciò che oggettivamente si esprime. Per questo nell’attività dell’attore non può esserci una riproduzione separata delle due vite di linea scenica di un personaggio: quella interiore psicologica e quella esterna fisica. La creazione della linea esterna delle azioni fisiche è contemporaneamente creazione di una logica e di una coerenza di sentimenti, giacchè i sentimenti sono legati in modo indissolubile alle azioni. “Il segreto del mio procedimento è chiaro. – scrive K. S. Stanislavskij – Il nodo non è nelle azioni fisiche in quanto tali, ma nella verità e nella fede che ci aiuta a suscitare e a farci sentire quella azioni” (1938, pag. 278). Il concetto delle azioni fisiche sostenuto da K. S. Stanislavskij rimanda al giudizio di un altro luminare della scena russa, F. I. Saljapin: “Un gesto non è un moto del corpo, ma un moto dell’anima.”.
In questo modo, le azioni fisiche sono la “chiave” mediante cui l’artista penetra nel mondo interiore del soggetto da lui interpretato. Le azioni fisiche aprono il passaggio ai sentimenti del personaggio della pièce, danno all’artista la possibilità di vivere quei sentimenti come fossero suoi. Tutta l’attenzione va alle azioni fisiche, alla loro verità,  logica e coerenza – non si stanca di ripetere K. S. Stanislavskij. Le azioni fisiche non hanno bisogno dell’”aggiunta” posticcia delle emozioni dell’artista. I sentimenti sorgeranno da sé, non appena le azioni fisiche creeranno un terreno loro propizio.
La corretta esecuzione di un compito fisico è la condizione essenziale per la nascita delle emozioni. L’azione scenica deve essere motivata interiormente, logica, coerente e fattibile nella realtà. La verità dei sentimenti è determinata dalla verità delle azioni fisiche.
In realtà tutte le innumerevoli tecniche del sistema di Stanislavskij sono dirette, in ultima analisi, alla realizzazione e alla giustificazione delle azioni fisiche. L’attore può agire correttamente e produttivamente solo nel caso in cui sia capace di rispondere in modo esauriente alle domande: dove?, quando?, con chi?, a che pro?.
Ogni personaggio della pièce, nelle condizioni create dal drammaturgo, ha uno scopo essenziale, fondamentale, che potrebbe essere definito compito principale. Il compito principale riflette la più importante delle aspirazioni del personaggio, con maggiore esattezza di quanto riveli una gran massa di singoli elementi fuori dalla “chiazza luminosa” della coscienza e che comincia ad attuarsi a carico di nessi automatizzati condizionati-riflessi. K. S. Stanislavskij acutamente scorge nel compito principale uno dei potenti stimolatori del subconscio.
La lotta per la risoluzione del compito principale rappresenta l’azione trasversale, che percorre tutta la pièce, dal primo all’ultimo atto. L’azione trasversale crea quel canale che conduce l’attore allo scopo fondamentale del suo agire, senza permettergli di sviare verso fatti marginali.
Rispondendo alla domanda: in nome di cosa il personaggio interpretato vive e agisce sulla scena, il compito principale, non è in grado di spiegare il senso profondo di ogni singola azione compiuta per la realizzazione dello scopo fondamentale. Nasce la necessità di scindere la serie degli avvenimenti negli elementi che la compongono. La divisione della pièce in episodi e la norma dei compiti frazionati significa concretizzazione di nessi causali-derivati fra le situazioni date e le azioni del personaggio della pièce. Tale divisione semplifica notevolmente il lavoro dell’attore, gli dà la possibilità di un’azione motivata al massimo, in ogni fase di svolgimento degli avvenimenti. Le azioni dell’attore, entro una sezione, frazionano il compito. Esigendo dall’attore azioni concrete finalizzate, il compito frazionato lo allontana da un sentire posticcio, dall’affettazione.
La definizione di compito frazionato si ottiene connotando ogni episodio della pièce. Stanislavskij sottolinea più volte il significato di questa tecnica creativa. La definizione verbale deve riflettere l’essenza della sezione, ciò che di fondamentale contiene la sezione, la cosa più importante per il personaggio. Le ricerche di definizione equivalgono ad un’analisi globale dell’episodio, a ricavare dalla sezione la sua essenza profonda. La scena della definizione determina il compito.
Stanislavskij pretende che il compito frazionato sia indicato da un verbo e non da un sostantivo, perché il sostantivo spinge l’attore a una rappresentazione “a grandi linee” del sentimento. La preferenza accordata al verbo è subordinata al fatto che un verbo qualsiasi è il segnale verbale di un’azione, di un’azione precisa, al tempo stesso distinta da altre forme di attività umana. Stanislavskij giustifica espressamente la necessità di un’indicazione concreta del compito, giacchè la realtà genera l’azione. Esimi maestri della parola sottolineavano ripetutamente il ruolo del verbo nell’immaginosa lingua poetica.proprio col “verbo” il poeta è capace di “incendiare il cuore degli uomini” (Puskin). A. N. Tolstoj diceva: “Il movimento e il suo estrinsecarsi – il verbo- è la base della lingua. Trovare il verbo giusto per la frase,  questo significa dare movimento all’intera  frase… Nel linguaggio artistico il verbo è fondamentale ed è chiaro, perché tutta la vita è movimento… Allora, occorre sempre, prima di tutto, cercare e trovare il verbo appropriato che dà il movimento appropriato dell’oggetto in questione” (cit. in V. R. Scebrin, 1955).
La scomposizione della pièce in sezioni e la definizione dei compiti frazionati, significa circostanziare le forze motrici delle azioni del personaggio. Grazie ai compiti frazionati, ogni azione dell’attore diviene motivata e mirata. Al tempo stesso, un simile frazionamento della pièce nasconde in sé il pericolo  di un’interruzione dell’azione trasversale, della “colonna portante” dello spettacolo. Ecco il motivo per cui le azioni dell’attore, tese al raggiungimento di scopi frazionati, devono creare una linea continua che conduce l’interprete alla risoluzione del compito principale. Il mantenimento della prospettiva del ruolo è la condizione vincolante della creazione scenica. La prospettiva del ruolo permette all’artista di fissare il luogo di ogni episodio, il suo significato all’interno della pièce, il suo rapporto con le altre parti. Una pianificazione chiara della pièce aiuta l’attore a distribuire correttamente le sue forze creative e i suoi mezzi espressivi, ne garantisce il logico impiego durante tutto lo spettacolo.
Per il metodo di K. S. Stanislavskij è peculiare l’unità dialettica di analisi e sintesi. La scissione in sezioni della pièce, il precisare e il circostanziare le azioni all’interno di ogni sezione, sono costantemente sintetizzati dall’azione trasversale, tesa alla risoluzione del compito principale.
Quindi, la delucidazione dei compiti è chiamata a garantire l’intenzionalità delle azioni fisiche. In esse si trova la risposta alla domanda: perché, in nome di cosa il personaggio interpretato agisce nelle circostanze date dal drammaturgo. Quel sottotesto interiore che, per affermazione di . Stanislavskij, “ci fa pronunciare le parole del ruolo”, è il risultato della consapevolezza dei compiti. La definizione dei compiti richiede un’analisi profonda della pièce, una conoscenza dell’epoca, delle sue istituzioni sociali, della psicologia dei personaggi. Non la semplice intuizione, ma la penetrazione del disegno ideologico del drammaturgo, l’abilità di evidenziare il tratto più caratteristico, più peculiare nei tipi di eroi da lui creati – ecco cosa determina la formula corretta dei compiti di ogni personaggio. Non a caso Stanislavskij attribuisce un tale significato alla definizione della sezione, all’espressione verbale del compito. La formula verbale consolida i risultati di un complesso processo mentale, i risultati dello studio compiuto dall’attore sul suo ruolo e su tutta la pièce nell’ insieme. Le osservazioni di . Stanislavskij in merito alla definizione verbale del compito mostrano come egli abbia considerato, in modo acuto e preciso, il ruolo del secondo sistema di segnali nel processo artistico di creazione di un personaggio di scena. Ma continueremo l’analisi di questo processo creativo. L’artista – nella parte di Amleto – si esibisce in modo rigoroso, il principe danese insegue degli obiettivi durante tutta la pièce entro i confini di ogni singolo episodio. Affinché le azioni dell’artista siano verosimili e logiche, affinché questa azioni possano suscitare in lui le emozioni necessarie, l’artista deve ritenere veri i fatti che accadono in scena, lottare per gli obiettivi di Amleto come fossero i suoi stessi obiettivi, al cui raggiungimento è intimamente coinvolto. L’artista-interprete deve legarsi alla vita di Amleto, deve guardare la realtà  circostante con gli occhi del giovane principe danese.
Il nostro attore non avrebbe alcuna capacità di penetrare in un mondo interiore a lui estraneo, non può mai pensare di essere effettivamente Amleto, il principe danese. Solo un malato psichico è capace di credersi Napoleone o Giulio Cesare. Per un uomo normale è impossibile.
Ma come superare, non all’istante, la percezione non sopita dell’ ”io” dell’artista, come costringerlo a fare degli obiettivi di Amleto gli obiettivi suoi personali? Il metodo Stanislavskij dà una risposta esauriente alle domande da noi poste. L’artista non può e non deve credere alla realtà dei fatti che si verificano, deve credere nella loro possibilità. Cosa farei, come agirei, se fossi  al posto di Amleto – si chiede l’artista e risponde con una serie di atti coerenti. Durante tutto lo spettacolo ci è davanti non un uomo che fa l’Amleto, ma un uomo che è al posto di Amleto.
Stanislavskij ha definito una delle tecniche più straordinarie del suo metodo, il “magico se”. Tenteremo di analizzare concretamente questa tecnica.
Perché è impossibile l’immedesimazione diretta dell’attore? “Io sono Amleto” dice l’attore a se stesso, cioè sfrutta lo stimolo verbale che designa il personaggio descritto dal drammaturgo. Ma l’infinito numero di stimoli naturali dell’ambiente dell’artista, tutto il vissuto precedente, ne propongono perfetto un altro: “Tu, Petrov, sei un attore che è nato e vive nel nostro tempo, che ha terminato la scuola di teatro ed è qui che ora lavora.”. in questo modo il segnale verbale “io sono Amleto” entra in aperto contrasto con la realtà, naturalmente percepita dall’artista, è schiacciato dai segnali di questa realtà, si defila davanti ad essi.
Il singolare “conflitto” dei due sistemi di segnali, che nasce col tentativo dell’attore di presentarsi come Amleto, è domato mediante il “come se”. La tecnica del “come se” utilizza la facoltà mentale di astrarre, di prescindere dall’immediata realtà. I segnali verbali e le dimostrazioni concrete memorizzate, l’intero complesso delle rappresentazioni collegate al personaggio interpretato, l’artista non si oppone alla realtà, ma la mette in aggiunta. “sì, io sono Petrov, un attore” – l’interprete non cessa di essere consapevole – “ma se fossi al posto di Amleto, farei questo e questo”. Più attenzione dirigerà l’attore sulle proprie azioni, svolte per conto del personaggio rappresentato, più sentirà di essere quel personaggio, più di rado si ricorderà di sé in quanto uomo-artista.
E’ necessario rivolgere l’attenzione ancora su un fatto. Il prescindere dalla realtà (“se fossi al posto di Amleto…”) si combina in modo dialettico con la tendenza opposta di essere quanto più possibile vicino alla realtà. L’artista non si pone la domanda: “Come deve comportarsi Amleto nelle circostanze date?”, egli si chiede sempre: “Come mi comporterei se fossi al posto di Amleto?”. Non è difficile vedere che nel primo caso (“come deve comportarsi Amleto”) occorre un  grado di astrazione più alto che nel secondo. Attuando le proprie azioni al posto del personaggio interpretato, l’artista utilizza la propria naturale esperienza vissuta, per rappresentare quelle azioni, quegli atti che si è trovato a svolgere in condizioni simili alle circostanze date.
Il “come se” è il mezzo di trasformazione degli obiettivi del personaggio negli obiettivi dell’interprete stesso. Grazie a tale trasformazione del “come se2, si verifica lo stimolo fortissimo dell’attività dell’attore. Proprio nella domanda “cosa mi metterei a fare?”, c’è l’impulso all’azione, giacchè a quella domanda è più facile rispondere con un atto che non con una descrizione verbale di un probabile comportamento.
Quindi, agendo al posto di Amleto, l’artista non smette di sentirsi uomo-attore. L’impossibilità di una fusione completa col personaggio rappresentato non solo non reca danno alla qualità dell’interpretazione, ma è condizione indispensabile per la creatività scenica. K. S. Stanislavskij sottolineava ripetutamente la differenza fra l’emozione reale e l’emozione in scena. Esigeva dall’artista un controllo costante della sua condotta sul palcoscenico.
La “dissoluzione” totale della personalità dell’artista nella figura del personaggio recitato porterà inevitabilmente al naturalismo, ad una riproduzione primitiva di fatti reali privi della loro interpretazione estetica. Molti eccellenti maestri di teatro spiegavano l’importanza del controllo del proprio stato, della propria condotta in scena (F. I. Saljapin, T. Salvini ecc.). Durante lo spettacolo la personalità dell’attore è come divisa: l’attore-uomo sorveglia continuamente l’attore-Amleto, ne controlla le azioni, ne corregge la condotta. “E in quella doppia vita, in quell’equilibrio di vita e finzione consiste l’arte” (Salvini, cit. in K. S. Stanislavskij, 1938, pag. 36). La necessità dell’autocontrollo scenico dell’artista, nel processo creativo della reviviscenza, è sancita da Stanislavskij in modo assolutamente indiscutibile. Del tutto infondati i tentativi di contrapporre il principio dell’autocontrollo all’arte della reviviscenza e quindi i conseguenti appelli a “integrare” l’arte della reviviscenza con l’arte della rappresentazione, come fosse monopolio di quest’ultima una forma scenica viva ed espressiva (R. Simonov, 1958; B. Zachava, 1957).
Ci sembra che alla base della duplice percezione della realtà da parte dell’attore, c’è un fenomeno, definito “adattamento” e ben studiato negli esperimenti sugli animali. Di che fenomeno si tratta? Se in una gabbia combineremo l’accendersi di una lampadina con del cibo, mentre in un’altra gabbia con una scossa di corrente elettrica, allora nel tempo si può osservare quanto segue. Nella prima gabbia un cane risponde alla lampadina con una secrezione salivare, leccandosi il muso, cioè con una spiccata reazione alimentare. Nella seconda gabbia la stessa lampadina inizia a provocare l’arretramento della zampa, una reazione motoria di difesa. In questo modo, il nostro stimolo (l’accendersi della lampadina) è risultato collegato a due reazioni: alimentare e di difesa. La condizione ‘gabbia’, di per sé, non provoca alcun riflesso, esplica la funzione di “adattatore”, di guida dello stimolo nervoso ora verso un direttivo alimentare, ora verso un direttivo di difesa. Nel processo di adattamento il significato segnalatore della lampadina cambia sempre. Nella prima gabbia la lampadina funge da segnale alimentare, nella seconda da segnale eccitatorio di dolore.
Le ricerche di E. A. Asratjan (1941, 1951, 1955) e dei suoi collaboratori (M.I. Struckov, 1956; V. P. Podacin, 1959 ecc.) dimostravano che tutte le leggi fondamentali dell’attività condizionata-riflessa si estendevano al fenomeno dell’adattamento.
Si è già detto che la condizione ‘gabbia’ di per sé non provoca alcuna reazione. E’ lo stimolo tonico di fondo, la cui funzione consiste nella trasmissione del processo di eccitazione a uno dei due percorsi nervosi esistenti. G. T. Sachiulina (1955), u’assistente di E. A. Asratjan, riuscì a rilevare l’influenza tonica dell’”adattatore” mediante una registrazione delle onde cerebrali (elettroencefalogramma). G. T. Sachiulina, la mattina, stimolava con una scossa elettrica la zampa sinistra, la sera quella destra. In seguito a tale procedimento, in risposta sempre a quello stimolo, il cane la mattina ritirava la zampa sinistra, le sera quella destra. Nel caso in questione, l’”adattatore” era un arco di ventiquattrore. Risultò che, appena si conduceva il cane in gabbia, aumentava bruscamente l’attività elettrica della regione sincipitale dei grandi emisferi, al tempo stesso la mattina si poteva osservare un potenziamento dell’attività nell’emisfero destro, e la sera in quello sinistro. Gli esperimenti della Sachiulina confermano che già fin da quando il segnale convenzionale “di avvio” ha cominciato ad agire, lo stimolo “adattatore” (l’arco di ventiquattrore, la condizione ‘gabbia’) prepara lo sfondo corrispondente a quel segnale, una distribuzione corrispondente di “scambi aperti e chiusi” nei percorsi nervosi.
Da M. I. Struckov fu dimostrato che nel processo di adattamento fra connessioni convenzionali ci sono relazioni scambievoli (reciproche). Se si riduce, mediante queste o altre tecniche, una sola funzione dello stimolo, esso comincia a dare la reazione corrispondente alla sua seconda funzione. Studiando il fenomeno dell’adattamento nell’uomo, L. S. Gambarjan (1953) stabilì che agli “adattatori” verbali spetta un ruolo di guida, di comando. Un “adattatore” del secondo sistema di segnali sottomette l’azione dell’”adattatore” del primo sistema, determinando, attraverso quegli stessi percorsi, le diffusioni del processo nervoso. L’adattamento dei segnali convenzionali, in un uomo, si realizza in modo straordinariamente rapido, a volte “in quarta” e può essere attuato tramite un segnale verbale (J. I. Dan’ko, 1961).
Torneremo ora alla condizione dell’artista in scena. Durante lo spettacolo si origina un continuo adattamento, un continuo cambiamento del significato indicatore degli stimoli. Una tela grossolanamente dipinta è il caso che “si trasformi” in un  giardino pieno d’ombra. La partner Ivanova è nel ruolo di Ofelia. Innanzitutto, l’attore stesso si sente ora l’artista Petrov, ora il principe Amleto.
Un adattamento straordinariamente accelerato e grave, è la tipica caratteristica dello stato d’animo in scena. Grazie a un simile adattamento, la realtà circostante acquista un duplice significato: reale e scenico. L’attore percepisce contemporaneamente la partner sia come l’attrice Ivanova, sia come Ofelia. Movendosi nel personaggio di Amleto, non cessa di sentirsi uomo-attore. Il “magico se” rappresenta quell’”adattatore” che dà ai fatti che avvengono intorno all’attore il loro secondo significato scenico.
Grazie al “come se”, il personaggio creato dall’attore recherà inevitabilmente su di sé l’impronta delle specifiche peculiarità del drammaturgo, giacché la pièce è la fonte prima ed essenziale da cui l’attore attinge notizie per il suo “io” scenico. Un eroe shakespeariano non può essere simile ad un eroe cechoviano, non solo perché è un uomo di un’altra epoca, ma innanzitutto perché diversa è la descrizione dei personaggi, diversi sono i principi individuali – artistici di riprodurre la realtà. Ingenuo il timore che l’ira di Otello, “interpretata secondo il sistema di Stanislavskij”, somigli all’ira di zio Vanja in virtù del fatto che, nell’uno e nell’altro caso, si ha a che fare con un’emozione – l’ira – comune a tutta l’umanità.
Quindi, tramite il “come se”, si ottiene una relativa trasformazione degli obiettivi del personaggio negli obiettivi dell’interprete. Grazie al “come se”, l’artista inizia a lottare per quegli obiettivi come fossero i suoi. Le sue azioni fisiche diventano verosimili, logiche e coerenti. Ma per una veridicità perfetta delle azioni fisiche,  un solo “come se”non basta. Mettersi al posto del personaggio interpretato, questo significa riprodurre, con la forza della propria immaginazione, la totalità delle condizioni in cui vive, sente e agisce il personaggio scenico. E’ fondamentale sapere cosa ne era del personaggio prima della pièce e cosa ne sarà dopo, sapere da dove è arrivato, cosa gli accadeva dietro le quinte. Non un solo passo in scena, non una sola azione fisica deve prodursi meccanicamente, senza una motivazione interiore.
La pièce è la fonte d’informazioni sul personaggio, ma il testo della pièce non consente all’attore di precisare tutti i dettagli che lo interessano, molte cose restano vaghe, richiedono un’aggiunta e uno sviluppo. Tale aggiunta è assolutamente necessaria per concretizzare e giustificare le azioni fisiche, giacché la rinuncia alla puntualizzazione dei dettagli porta ad azioni “a grandi linee”, fuori da determinate condizioni dell’opera drammatica in questione. L’artista è costretto a colmare con la propria immaginazione tutto ciò che non risulta possibile trovare nella pièce. La necessità dell’invenzione è particolarmente importante quando la pièce non coinvolge a sufficienza l’attore. L’immaginazione è in grado di conferire al personaggio nuovi tratti interessanti, a rievocarne la figura, a renderla più marcata e penetrante.
Ma da dove l’artista ricava il materiale per la sua fantasia creativa? Dalla vita, da percezioni sensoriali dirette. Stanislavskij raccomanda all’attore di arricchire instancabilmente il proprio bagaglio di vissuto. Osservando i casi della vita, l’artista non deve limitarsi alla constatazione dei fatti (cosa, chi, quando, dove ecc.) ma cercare di chiarire i nessi di causa ed effetto intercorrenti fra loro (perché, per quale motivo si verifica ciò che osservo?), cercare di comprendere il senso dei fenomeni esaminati. Il raggiungimento dell’essenza profonda degli eventi è possibile solo attraverso un intervento attivo sul loro corso. Entrare in contatto con la realtà in tutte le sue manifestazioni, ecco a cosa K. S. Stanislavskij chiama l’artista.
Particolarmente importanti sono per l’artista le osservazioni riguardanti le emozioni affettive, tanto le altrui, quanto le sue personali. Accumulare osservazioni in quest’ambito significa innanzitutto memorizzare le manifestazioni esteriori del sentire: la mimica, le espressioni degli occhi, l’intonazione, la gestualità. Di gran lunga più arduo è conservare nella propria memoria la stessa emozione, il complesso delle percezioni che scaturiscono per rabbia, per gioia o per dispiacere. Il rimando immediato al “come se” è l’esigenza di Stanislavskij di rapportare costantemente gli atti dell’uomo alle circostanze che provocano questi atti. Un bagaglio di tali comparazioni aiuterà molto l’attore quando dovrà rispondere, con l’azione, alla domanda:”Cosa mi metterei a fare se fossi al posto del personaggio interpretato?”
L’immaginazione è la condizione indispensabile per la verosimiglianza delle azioni fisiche. Per riprodurre veridicamente il piacere del ragù, finto, occorre, magari approssimativamente, immaginarsi il gusto di una pietanza qualsiasi. Trovandosi in scena, l’artista integra costantemente la situazione che lo circonda con la riproduzione di impressioni sensoriali acquisite in precedenza: visive, uditive, tattili, gustative, olfattive. Stanislavskij metteva soprattutto in rilievo il ruolo delle rappresentazioni visive che definiva “percezioni visive interiori”.
Il recettore visivo occupa una posizione di guida nel sistema degli altri recettori umani. Svolge un’ingente funzione nel coordinamento dei movimenti, nella realizzazione di processi laboriosi. Per mezzo della vista, conosceremo il mondo che ci circonda. E’ significativo che nei bambini la parola entra più rapidamente in rapporto ad una reazione alla vista di un oggetto, piuttosto che al suono. Facendo un’analisi, i bambini, prima di tutto, rivolgono l’attenzione alla forma dell’oggetto, poi alla sua dimensione e, un po’ più tardi, al colore (L. A. Orbeli, 1955). Per trovare un oggetto, per assimilarlo, per impiegarlo nel soddisfacimento dei nostri bisogni, dobbiamo vedere quest’oggetto.
La percezione delle molteplici caratteristiche dell’oggetto mediante l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto è sempre collegata alla percezione della sua immagine. Proprio perché la vista è più intimamente collegata a reazioni motorie spontanee che non l’udito, il gusto e l’olfatto, la riproduzione volontaria delle rappresentazioni visive si attua in modo relativamente facile. Tentando di ricordare il gusto e l’odore di un oggetto qualsiasi, innanzitutto ne ricostruiamo l’immagine, cioè la componente più forte del complesso degli stimoli. La riproduzione della componente più forte comporta il risveglio dell’intero complesso, di tutte le sue restanti componenti: del sapore, dell’odore, delle caratteristiche percepite col tatto, ecc.
Fino a questo momento si è parlato della riproduzione di impressioni che apparivano come componenti di un complesso generale di stimoli. Così, immaginando una mela, ne rammentiamo il sapore, l’odore, la superficie liscia, il peso. Oltre ai ricordi di tipo “complessivo”, trovano posto i ricordi di tipo associativo, alla cui base ci sono nessi transitori, formatisi attraverso una combinazione casuale di stimoli.
Porteremo un esempio. Vogliamo immaginare mentalmente il viso di un uomo visto qualche anno prima. Non ci riusciamo. Ma ecco, abbiamo sentito il brano di una melodia, abbiamo preso in mano un oggetto qualsiasi e davanti a noi, come fosse vivo, è apparso il viso del nostro conoscente. Più tardi, ricordiamo che avevamo sentito quella melodia insieme a lui, che avevamo visto un oggetto simile nelle sue mani. Sia la melodia che l’oggetto non rientrano nel complesso degli stimoli che agiscono costantemente su di noi a contatto col viso in questione. Il discorso gravita intorno alle combinazioni casuali, ai nessi transitori che scattano casualmente, alle cosiddette associazioni.
I nessi transitori che s’instaurano fra stimoli indifferenti per l’organismo, rappresentano la base fisiologica delle associazioni. In questo consiste la differenza fra le associazioni e il classico riflesso condizionato, dove più rapidamente uno stimolo qualsiasi (luce, suono, odore) diviene segnale di un effetto rilevante (il cibo, il dolore ecc.). Con gli esperimenti degli assistenti di I. P. Pavlov –  Podkopaev e Narbutovic – per la prima volta fu dimostratala possibilità della formazione di nessi transitori fra stimoli indifferenti. Podkopaev e Narbutovic combinarono l’azione di due stimoli. In seguito, su uno di questi stimoli fu prodotto un riflesso condizionato alimentare. Risultò che anche il secondo stimolo che, di per sé, non era mai stato collegato al cibo, produceva una reazione alimentare. Ulteriori ricerche dimostrarono che molte leggi dell’attività condizionata-riflessa potevano essere applicate anche all’origine delle associazioni.
A differenza di F. P. Majorov (1954) e di A. N. Bregazet (1955), che considerano l’associazione un nesso puramente corticale che si attua senza sostegno alcuno dell’attività non condizionata, E. A. Asratjan (1952) nonché N. A. Rokotova (1954) ritengono che alla base delle associazioni c’è un riflesso innato orientativo. Dal punto di vista di E. A. Asratjan, un’associazione è la sintesi di due (o più) riflessi non condizionati orientativi.
Gli animali superiori (il cane, la scimmia) hanno la capacità di realizzare associazioni. Nelle puzzole esse si manifestano in termini approssimativi. Nei colombi la combinazione di stimoli indifferenti ha solo semplificato l’ulteriore produzione di riflessi condizionati (D. A. Birjukov).
Non è difficile convincersi che l’immaginazione creativa dell’attore utilizza ambedue i tipi di riproduzione delle impressioni acquisite in precedenza: sia la ricostruzione del complesso di stimoli (sapori, odori, suoni) mediante la riproduzione di una delle componenti di questo complesso (immagine visiva), sia le associazioni che si generano in seguito ad una combinazione di impressioni casuali.
E’ importante sottolineare che in un qualsiasi caso di riproduzione volontaria di rappresentazioni visive, uditive, gustative, tattili ecc. è assolutamente vincolante l’indicazione verbale di quel fenomeno che vogliamo ricreare nella nostra memoria (R. J. Golant, 1948). Il ricordo involontario, la nascita casuale di rappresentazioni visive e uditive, non richiedono segnali verbali. Ma se vogliamo vedere mentalmente un oggetto qualsiasi, “sentire” mentalmente una melodia qualsiasi, senz’altro diamo ad essi un nome. La memoria spontanea dell’uomo è inconcepibile senza il linguaggio, senza il ricorso a stimoli verbali. In un modello di immaginazione, di riproduzione attiva d’impressioni acquisite in precedenza, ci convinciamo nuovamente del fatto che, ogni volta che il linguaggio tocca le azioni spontanee, i ricordi spontanei, la spontaneità, immediatamente ci imbattiamo in una parola, in un problema di interazione dei due sistemi di segnali. La pratica linguistica dell’uomo, la ricchezza e la varietà del suo bagaglio lessicale, hanno un grande significato per l’attività dell’immaginazione. “La lingua genera la fantasia… un uomo che parla bene, in un bella lingua corretta, ricca, pensa più vivacemente di un uomo che parla una brutta e miserevole lingua.” (A. N. Tolstoj)
Prima dicevamo che la forza di una pressione verbale cresce in presenza di una combinazione di segnali linguistici e stimoli condizionati diretti.  Un simile inserimento di stimoli diretti in una rappresentazione, creata dall’immaginazione, è un importante elemento della creazione scenica. K. S. Stanislavskij  fa l’esempio della lampadina che sembra all’attore l’occhio di un mostro. Non appena un oggetto reale presente in scena è  inserito dall’attore in una struttura di sua invenzione, i molteplici cambiamenti di questo oggetto (il lampeggiare della lampadina, l’accendersi) cominciano a mediare, ad utilizzare l’immaginazione, le immagini fittizie acquistano contemporaneamente un grande carattere persuasivo. Il processo d’inserimento di un oggetto reale in una struttura frutto di un’invenzione creata dal gioco dell’immaginazione, è descritto da A. I. Kuprinij nel racconto Listrigony: “Là c’è un’alta montagna dal dolce pendio, cinta da antiche rovine. Se si guarderà attentamente, allora certo la vedrai tutta, simile a un incredibile mostro gigantesco che, col petto chinato verso il golfo e infilato il brutto muso profondamente nell’acqua, con orecchio vigile, beve avidamente e non riesce a dissetarsi.
Nel posto in cui deve trovarsi l’occhio del mostro, riluce la minuscola lanterna rossa di una frontiera. Conosco quella lanterna, centinaia di volte l’ho oltrepassata senza fermarmi, l’ho sfiorata con la mano. Ma nello strano silenzio e nella cupa oscurità di questa notte autunnale, vedo sempre più chiaro sia la schiena che il muso del vecchio mostro, e sento che il suo cattivo, piccolo, rovente occhio mi segue con un celato sentimento di odio.”
Fino a questo momento, esaminando le azioni fisiche dell’attore, intenzionalmente abbiamo lasciato da parte  l’interazione fra il personaggio da lui interpretato con gli altri interpreti impegnati nello spettacolo. In realtà, l’attore non si muove mai da solo: tutti gli atti, le emozioni, le azioni del personaggio da lui interpretato, sono indissolubilmente legati al comportamento delle persone circostanti, ai loro sentimenti e alle loro aspirazioni.
Mentre lotta per raggiungere gli obiettivi prefissati, il personaggio della pièce entra in certi rapporti con questa gente, amici, nemici, più o meno intimi. Agisce sempre per qualcuno, comunica costantemente con qualcuno.
Se nella vita le azioni umane equivalgono a continui rapporti con le persone circostanti, allora sulla scena l’importanza dei rapporti aumenta immensamente.  L’attore non deve semplicemente eseguire determinate azioni, finalizzate e verosimili, ma eseguirle in modo tale che il senso di quelle azioni, la loro logica e la loro veridicità, sia compresa dalle centinaia di persone sedute in sala. Se lo spettatore con capirà ciò che avviene sulla scena, se le emozioni del personaggio non lo toccano, l’esecuzione degli attori si trasformerà in un assurdo passatempo.
Ma forse tutti gli sforzi dell’artista devono essere concentrati nel contatto con lo spettatore, forse deve parlare del suo ruolo allo spettatore? K. S. Stanislavskij risponde a questa domanda con un “no” categorico. Egli formula il principio dell’effetto indiretto sullo spettatore attraverso il rapporto con gli oggetti che si trovano in scena. Ma perché Stanislavskij ha da ridire su un rapporto diretto con la sala? Il fatto è che tale rapporto distrugge la verosimiglianza delle azioni fisiche dell’artista, lo trasforma da personaggio vivo dello spettacolo in un referente che proietta il ruolo in se stesso o se stesso nel ruolo. Lo spettatore cesserà di credere nella verità di ciò che accade sulla scena e con indifferenza o con ironica curiosità seguirà gli espedienti dell’artista Petrov, le sue pose, le intonazioni, la plasticità. Nasce una situazione paradossale: l’appello diretto allo spettatore lascia lo spettatore indifferente. Significa che l’artista deve sempre ignorare lo spettatore, rinunciare totalmente all’effetto sulla sala? No. L’artista deve recitare per la sala, portare agli spettatori il senso dei suoi atti e la verità delle sue emozioni mediante i rapporti con gli oggetti scenici.
Stanislavskij distingue tre tipi di oggetti con cui l’artista comunica in scena. Primo: l’attore stesso – il personaggio della pièce. Secondo: gli oggetti che si trovano in scena, fra cui hanno una maggiore importanza gli altri personaggi – i partners dell’interprete. Terzo: gli oggetti simulati, creati dall’immaginazione dell’artista.
Poiché l’artista, come personaggio della pièce, è un oggetto scenico, il contatto con se stesso, o autocontatto, gioca un ruolo notevole, in modo del tutto plausibile, e non sporadico, nello sviluppo dell’azione scenica. Stanislavskij dimostra che nella vita spesso comunichiamo con noi stessi in situazioni di agitazione, di riflessione ostinata, di ricordi, di analisi dei nostri sentimenti. Basta ricordare i monologhi di Arbenin, di Amleto, di Boris Godunov per convincersi quanto sia grande il significato dell’autocontatto nel processo di creazione del personaggio scenico.
K. S. Stanislavskij presterà, tuttavia, particolare attenzione al contatto col partner. Il contatto col partner è il canale principale tramite cui l’artista influisce indirettamente sulla sala. Stanislavskij mette in guardia gli attori da un contatto superficiale, formale col partner, egli esige un contatto sincero, viscerale, incompatibile con i tentativi di pressione diretta sullo spettatore.
Nel corso dello spettacolo l’artista comunica non con l’uomo-partner, ma con il ruolo-partner. Solo in questo caso le sue azioni saranno logiche e verosimili. Sotto l’effetto del “come se”, anche l’immaginazione creativa dell’uomo-partner acquista agli occhi dell’artista il suo significato scenico, esattamente come lo acquistano tutti gli altri oggetti presenti sulla scena. Grazie ad un adattamento costante l’attrice Ivanova diviene Ofelia per l’attore-Amleto, mentre il partner Sidorov il re Claudio. Occorre notare che un simile adattamento si alleggerisce dell’immedesimazione, occasionale per l’attore-Amleto, dei suoi partners. Stanislavskij mette soprattutto in evidenza che bisogna comunicare non con un personaggio immaginario, ma col partner reale che ha, per lui, intonazioni, comportamenti, gesti peculiari.
Nel caso in questione, osserviamo di nuovo l’uso di stimoli diretti, delle caratteristiche individuali dell’uomo-partner, per potenziare l’attendibilità della sua simulazione, al pari di quel che aveva “l’occhio del mostro” al posto della lampadina. Percependo il partner come un uomo reale, dotato di senso scenico, l’artista deve convincerlo della verità delle sue azioni. Non lo spettatore seduto in sala, ma il partner è il giudice che valuta la pienezza e la sincerità dell’immedesimazione scenica. Se il partner crederà nelle verità delle azioni dell’attore, crederà in lui anche lo spettatore.
Una delle condizioni vincolanti dell’influenza incisiva sul partner (e, parimenti, dell’influenza sullo spettatore) è configurata da Stanislavskij nella richiesta di “parlare non all’orecchio ma agli occhi del partner”. E in questo caso Stanislavskij si basa sulle leggi oggettive, da lui osservate, della psiche umana, sulle regole d’interazione dei due sistemi di segnali. “La natura ha fatto sì che, al momento di un contatto verbale con altri individui, prima vediamo con l’occhio interno su cosa verte il discorso, e solo dopo parliamo di ciò che abbiamo compreso”.
A prima vista, la richiesta di Stanislavskij di “parlare agli occhi del partner”, cioè di vedere mentalmente di cosa si parla, può sembrare oscura e inutile. In effetti, un segnale linguistico non reca forse in sé tutte le informazioni necessarie? Quale cosa, all’interlocutore, è dato “vedere” o “non vedere” nel momento in cui parla? La moderna fisiologia insiste che le immagini mentali, come pure le altre manifestazioni dell’attività nervosa superiore dell’uomo, non sono fenomeni del tutto “puramente psichici”, privi di espressione effettrice.
Abbiamo già detto che il significato biologico delle rappresentazioni consiste nella localizzazione della ricerca. In un processo di rappresentazione, si verifica un confronto costante fra le immagini mentali e i tipi di oggetti del mondo circostante. Così, un individuo, che s’imbatte in un prodotto alimentare sconosciuto, ancora prima di provarne il gusto, ha la possibilità di giudicare il valore alimentare dell’oggetto mediante il confronto fra il suo aspetto esterno e i tipi di sostanze alimentari a lui note. Il significato biologico delle rappresentazioni rende comprensibile il senso di quelle reazioni effettrici “esterne” che accompagnano la nascita delle immagini mentali. Di regola, queste reazioni si riducono a una “sintonizzazione” degli organi di senso, alla loro tendenza al raffronto fra il possibile e l’esistente. Se si ordina a un individuo di rappresentare mentalmente un oggetto qualsiasi, allora un raggio luminoso proveniente dal cristallino, fissato nel bulbo, traccerà sulla retina i contorni di quell’oggetto. In altri termini, quando immaginiamo visivamente un oggetto, il dispositivo del nostro occhio funziona così come funzionerebbe se stesse guardando un oggetto reale. E’ risaputo che l’intenzione di muoversi comporta una minima contrazione dei muscoli deputati alla realizzazione della reazione motoria in questione (i cosiddetti atti isomotori).
Non a caso I. M. Secenov definisce l’intenzione come un riflesso “rimasto in sospeso”.
Il legame fra le immagini mentali degli oggetti e l’apparato visivo risulta talmente stabile che si mantiene persino nei ciechi, purché non lo siano dalla nascita. La registrazione delle onde dei muscoli oftalmici mostra che un cieco, quando legge con le dita, segue il testo con gli occhi e, quando legge a lungo, accusa dolore agli occhi. Se un cieco chiude gli occhi, disegna, scrive, svolge operazioni laboriose in modo errato (M. I. Zemcova, 1960).
Gli esempi da noi addotti dimostrano che la rappresentazione non è una riproduzione fotografica, ma un atto inconscio complesso con un’interazione “circolare” fra sistema centrale e periferico.
I successi della biologia molecolare e submolecolare spingono sempre più gli scienziati a ritenere che alla base della memoria a lungo termine non vi sia una diversa conducibilità delle sinapsi, ma un “codice” molecolare a guisa di meccanismi di accumulazione e trasmissione dell’informazione genetica. Queste congetture e ipotesi meritano ogni genere d’attenzione. Contemporaneamente, sarà certo un errore considerare un’immagine sensoriale come un’”impronta” molecolare inerte. La riproduzione di un’impressione sensoriale è un’attività di adattamento dell’organismo, legata indissolubilmente al suo modo d’adattarsi. La nascita di una rappresentazione “mobilita” tutta la struttura a più livelli del recettore e, al tempo stesso, i segnali provenienti dagli organi ricettivi, in base al meccanismo dei rapporti inversi, potenziano l’eccitazione degli apparati centrali, rendono la rappresentazione più viva, esatta, concreta. Se immagino mentalmente ciò che dico, la mia descrizione verbale diventa più completa, convincente, acquista nuove sfumature di accenti. Ricorderemo come lo scrittore K. Paustocskij, nel passo  riportato, abbia descritto in modo accurato la situazione.
K. S. Stanislavskij insiste su un contatto scenico continuo, sebbene l’attore si rivolga al partner, ascolta le sue risposte o è impegnato in qualcos’altro. Fino a quel momento, mentre in scena si trova l’oggetto del contatto, l’artista non deve escluderlo dalla sfera delle sue relazioni sceniche. Estromettere dal dialogo il partner, disinteressarsi di lui, infrange immediatamente la verità di quel che accade in scena, sovverte l’intreccio dello spettacolo, crea il “vuoto” nell’azione scenica.
Ma come comunicare con il partner, quando non ci si rivolge a lui con una battuta, quando non si ascolta la sua di battuta, quando non si compiono azioni fisiche? “Irraggiamento” e “assorbimento” sono i termini usati per indicare le forme di simili contatti. I termini inadeguati, usati da Stanislavskij nel caso in questione, creano un effetto di spiacevole stonatura, contrastano apparentemente con i chiari, materialistici principi del “sistema”. Uno studio attento della natura dell’”irraggiamento” mostra che, dietro la terminologia inadeguata, si celano perfettamente concetti concreti, privi di qualsiasi mistica e arcano. In effetti, l’”irraggiamento” non è altro che la micromimica, piccoli significativi movimenti; al primo posto ci sono quelle contrazioni dei muscoli che determinano la cosiddetta espressione degli occhi. Ecco alcuni passi dei lavori di Stanislavskij dedicati all’”irraggiamento”. “Le parole sono assenti, niente mimica, movimenti, azioni, ma è l’espressione degli occhi, guardare cose invisibili per vedere le azioni fisiche” (1938, pag. 415. Il nostro rilassamento. P. S.). Durante un tentativo non riuscito di irraggiamento: “Non immobilizzate gli occhi!” (id., pag. 418). “Lasciatemi in pace! – i miei occhi parlavano proprio” (id., pag. 429). In quanto appartiene alla categoria delle reazioni motorie involontarie, la micromimica si manifesterà nel momento di eccitazione emotiva. Non a caso, K. S. Stanislavskij sottolinea che l’agitazione, una forte emozione, sono assolutamente necessarie per l’”irraggiamento”.
E’ interessante notare che anche la percezione di questi piccoli, significativi movimenti richiede un netto slancio emotivo, un’acuta sensibilità. Osserviamo un elevato sviluppo della capacità di percepire piccole reazioni motorie in quei personaggi che utilizzano la micromimica per dimostrare i loro esperimenti nell’”indovinare i pensieri” (V. Messing, M. Kuni e molti altri). In questo modo il “contatto interiore”, l’”irraggiamento” e l’”assorbimento” hanno una loro naturale giustificazione nella micromimica, in piccoli, significativi movimenti. Qui, si comprende, non c’è l’ombra di nessun raggio.
L’esigenza di Stanislavskij di un influsso indiretto sulla sala attraverso il contatto con gli oggetti scenici, non deve essere presa come un dogma. Il teatro realistico non respinge affatto il diretto appello agli spettatori, se quell’appello è giustificato dalle peculiarità stilistiche dello spettacolo, dalla logica del comportamento dei personaggi. Nello spettacolo Filumena Marturano (allestimento di Ev. Simonov), Domenico-R. Simonov e Filumena-Mansurova, accapigliandosi, si rivolgono agli spettatori come per invitarli ad essere testimoni della lite. Una simile tecnica viola l’ordine poetico dello spettacolo? No. Si sa che gli individui passionali, discutendo concitatamente, tendono a chiamare dalla loro parte gente, a volte sconosciuta, che sta loro intorno; si sforzano sinceramente, senza prendere in considerazione che, l’essenza della lite, può non interessare. La tecnica della messinscena di Ev. Simonov prende le mosse da un fatto colto nella realtà; l’appello degli attori allo spettatore non indebolisce, ma intensifica la naturalezza del comportamento dei protagonisti; per di più, questa tecnica coinvolge attivamente lo spettatore nell’azione scenica, lo rende partecipe anonimo dello spettacolo.
Il tempo, come ritmo esterno, è un’importante condizione che garantisce la realizzazione e la verosimiglianza delle azioni fisiche. Al fattore tempo appartiene un ruolo spiccato nel coordinamento e nell’attuazione degli atti motori. La maggior parte dei movimenti dell’uomo ha un carattere ritmico, l’attività e le pause si avvicendano tramite determinati intervalli di tempo regolari (il camminare, il correre, i movimenti difficoltosi ecc.). L’attività ritmica richiede dall’individuo uno sforzo minore, minore spreco di energia. Grazie alla formazione dei riflessi condizionati, con il tempo, le azioni ritmiche si automatizzano prima, mentre la “sezione creativa” della corteccia dei grandi emisferi si libera per realizzare forme più complesse di attività. Un’operazione ritmica è di gran lunga più stabile nei confronti di una inibizione esterna di quanto non lo sia un’operazione aritmetica. Sappiamo che stimoli estranei, particolarmente forti, creando altri focolai di stimolazione sulla corteccia dei grandi emisferi e disturbano le reazioni motorie in corso. I movimenti ritmici sono ostacolati in misura notevolmente minore. Le ricerche di N. J. Alekseenko (1953), I. P. Bajcenko (1955) e altri mostrano che gli stimoli estranei disturbano il ritmo solamente nella fase di consolidamento del ritmo dei movimenti; per di più, le reazioni secondarie a questi stimoli, iniziano esse stesse a inibirsi per via dell’attività ritmica.
E’ vero, l’attività ritmica comporta il pericolo della nascita dell’inibizione. Il fatto è che stimoli monotoni, monotone reazioni stereotipate hanno la caratteristica di provocare l’inibizione. Ecco perché davanti a ogni attività ritmica è necessario un cambio periodico di ritmi o un aumento degli intervalli, un ampliamento dei complessi gestuali ripetitivi (M. I. Vinogradov, 1955).
La frequenza esasperata del ritmo che un uomo è in grado di riprodurre, dipende dalla mobilità funzionale dei processi nervosi di eccitazione e inibizione che si avvicendano.
L’assimilazione di un ritmo assegnato è una delle importanti caratteristiche della specificità del sistema nervoso di un dato individuo (R. L. Rabinovic, 1953). Se si ordina a un bambino di schiacciare il tasto telegrafico con un ritmo a scelta, si può notare che ogni bambino ha un suo ritmo che dipende dalle peculiarità del suo sistema nervoso. Questo ritmo varia in grado maggiore o minore all’atto di un’immissione di eccitazioni supplementari che, a loro volta, confermano il tipo di sistema nervoso del bambino.
Ma qual è il ruolo del ritmo delle azioni fisiche nella creazione scenica dell’attore? Innanzitutto, il tempo come ritmo deve essere esatto, cioè deve corrispondere alle circostanze date. E’ ammissibile che le azioni fisiche si realizzino in modo logico e coerente anche se rallentate o, al contrario, accelerate. E’ chiaro che la verosimiglianza delle azioni s’interrompe subito qualora l’individuo agisca in modo fiacco o lentamente laddove serve la rapidità e l’impeto. Un tempo/ritmo esatto contribuisce alla nascita delle emozioni sceniche. Tutti i nostri atti, tutte le nostre azioni nella vita, si compiono con un certo ritmo. La riproduzione in scena di un ritmo appropriato farà rinascere in noi una situazione emotiva vissuta in precedenza, aiuterà la formazione dello stato d’animo necessario. In definitiva, un tempo/ritmo esatto, in virtù delle leggi fisiologiche sopra esaminate, agevola la concentrazione dell’attenzione, in una certa misura, salvaguarda l’attore da azioni estranee che sviano i suoi stimoli.
Fino a questo momento abbiamo parlato dei procedimenti grazie ai quali si ottiene la giustificazione e la concretizzazione delle azioni fisiche. Il metodo di K. S. Stanislavskij contiene una serie di tecniche ausiliari che garantiscono la corretta esecuzione delle azioni fisiche. Ad esse fa capo l’attenzione, lo scioglimento dei muscoli e l’esperienza professionale.
La massima concentrazione dell’attenzione è la condizione necessaria per una proficua creazione scenica. L’artista, sulla scena, è circondato da una notevole quantità di fatti che distolgono la sua attenzione dalla realizzazione delle azioni fisiche, che ostacolano la nascita delle emozioni. La sala, mille occhi puntati sul palcoscenico, sono fra gli stimoli estranei più forti.
L’esistenza propria dell’artista, i ricordi della vita, le ansie e le preoccupazioni sono anche capaci di offuscare i fatti della realtà scenica, di disturbare l’adattamento, di privare gli oggetti che circondano l’artista del loro significato scenico determinato dal “come se” e dall’immaginazione creativa. Infine, la massa degli influssi estranei (il bisbiglio del suggeritore, la gente dietro le quinte, la luce intensa ecc.) possono “far uscire l’artista di carreggiata”, impedire la corretta esecuzione delle azioni fisiche. Il disturbo continuo dell’attenzione, sovvertendo l’orientamento della realtà del ruolo, esclude la possibilità della reviviscenza scenica.
Il fenomeno della dominante, descritto e studiato in modo dettagliato dal fisiologo sovietico A. A. Uchtomskij (1952), costituisce la base fisiologica dell’attenzione. La dominante è un focolaio costante di eccitazione che occupa una posizione predominante nel sistema nervoso centrale. Il focolaio dominante schiaccia gli altri focolai eccitatori, al tempo stesso i centri nervosi intorno ad esso sfociano nello stato inibitorio conseguente. Agendo sul funzionamento dei centri nervosi, il focolaio dominante ha la proprietà di rafforzarsi a spese delle eccitazioni che riceve. Sarebbe sbagliato immaginare la dominante solo come un centro nervoso isolato. Un sistema funzionale complesso che unifica un gruppo di centri nervosi appartenenti a diversi recettori, può avere funzione dominante.
Se le pressioni, provenienti dall’ambiente esterno, provocano la comparsa di un focolaio più forte, i rapporti di dominanza cambiano e il nuovo focolaio acquista un valore preponderante.
E’ stato dimostrato da esperienze concrete che l’individuo funziona come un sistema d’informazione mono-canale, che in ogni singolo momento può reagire ad una sola delle eccitazioni cui è sottoposto. (R. Davis, 1975). Quindi, in condizioni di vita e di lavoro normali, un individuo sposta continuamente la sua attenzione da un oggetto ad un altro, “scorre” sugli oggetti del mondo circostante. Nel corso di una lunga evoluzione, sono sorti i meccanismi di concentrazione dell’attenzione, per mezzo dei quali dalla massa degli stimoli esterni vengono selezionati quelli che sono più determinanti in un dato momento.
Negli ultimi anni è risultato evidente che, in situazione di concentrazione di attenzione, un ruolo importantissimo spetta alla struttura reticolare del cervello. Attraverso questa formazione scaturisce un influsso regolatore sugli elementi più disparati del sistema ricettivo. Se in un gatto si registrano le reazioni elettriche del nucleo della coclea a clic sonori e, contemporaneamente, “si distrae la sua attenzione” con un topo, con l’odore del pesce o con una scossa sulla zampa, le reazioni uditive risulteranno attutite. In presenza di eccitazioni visive, l’influsso inibitorio delle eccitazioni estranee si estende fino alla retina dell’occhio.  Secondo i dati di G. V. Gheurchounis (1959), l’atto del mangiare smorza l’attività elettrica della sezione uditiva corticale dei grandi emisferi, dell’orecchio interno, del nucleo cocleare. Tutti questi fatti confermano in modo convincente che i rapporti dominanti che si vengono a formare sulla corteccia dei grandi emisferi per effetto delle eccitazioni esterne esercitano, attraverso la struttura reticolare, un massiccio effetto retroattivo sulla periferia ricettiva. Di conseguenza si determina un blocco, l’”intercettazione” dei segnali estranei nelle loro primissime fasi di diffusione lungo le diramazioni nervose.
Nella “lotta” per una posizione dominante nel sistema nervoso centrale, un’importanza decisiva ha la forza di eccitazione di questo o quel focolaio. Il sistema più forte dei centri nervosi domina sempre. Qui bisogna notare che, grazie al principio di segnalazione, la forza dell’eccitazione non è affatto direttamente proporzionale alla forza fisica dello stimolo. Così, il debole segnale dell’arrivo di un predatore (il suo odore, il rumore dei passi, lo scricchiolio di un ramo) può provocare un’eccitazione fortissima delle strutture del riflesso di difesa, che acquisisce subito caratteristiche di dominante di difesa.
Avvalendosi delle leggi oggettive dell’attività nervosa superiore dell’uomo, K. S. Stanislavskij pone alla base della concentrazione dell’attenzione la possibilità di contrapporre a fattori di deconcentrazione un impulso abbastanza forte che sia in grado di riprodursi sulla scena. C’è una sola possibilità di dimenticare la sala, le proprie preoccupazioni di uomo, tutto ciò che ostacola l’attività creativa. Questa possibilità consiste in un’attenzione assoluta verso le azioni fisiche, verso il “come se”, verso la simulazione creativa. Più l’attore sarà assorbito dalle proprie azioni, più intensamente si appassionerà alle circostanze date dalla pièce, meno si accorgerà di tutto ciò che gli è estraneo e che lo distoglie.
Nella formazione della “dominante scenica” un ruolo chiave spetta alle azioni fisiche.
La nostra fantasia è assai mutevole, stimoli estranei possono facilmente ostacolare l’attività dell’immaginazione. Di gran lunga più semplice e sicuro è realizzare azioni fisiche. Un focolaio di eccitazione che nasce, in questo caso, in un recettore motorio della corteccia dei grandi emisferi, sarà la base di formazione della “dominante scenica”, mentre il “come se” e la fantasia creativa la potenzieranno, coinvolgeranno nel sistema della dominante la vista e l’udito mediante le quali l’artista percepisce il significato scenico della realtà circostante.
Se, in tal caso, si manifesterà la reviviscenza scenica, essa, allora, amplificherà ancor di più la dominante, giacché alle emozioni spetta un ruolo enorme nella formazione dei rapporti di dominanza. Basta ricordare quale influenza esercitano sullo sviluppo delle dominanti le emozioni di gioia, di paura, di fame, di attrazione sessuale ecc. Non a caso Stanislavskij attribuisce un significato particolare all’attenzione sensoriale, ne sottolinea la superiorità nei confronti dell’attenzione astratta, fredda.
Sopra dicevamo che la comparsa di una dominante è accompagnata dall’inibizione di tutti gli altri centri nervosi, dalla riduzione parziale o totale del loro funzionamento. La conseguente inibizione dei centri subdominanti è sperimentata dall’attore come uno stato di solitudine pubblica, necessaria per una produttività del processo creativo.
Quindi, le azioni fisiche, realizzate dall’attore, rappresentano la base creativa della “dominante scenica”, della concentrazione dell’attenzione sulla realtà del ruolo. Però le stesse azioni fisiche richiedono la concentrazione dell’attenzione.
Per semplificare l’esecuzione delle azioni fisiche, Stanislavskij introduce una tecnica supplementare che consiste nella creazione di cerchi di attenzione. Stanislavskij raccomanda all’artista di limitare la sua attenzione ai margini delle singole sezioni dello spazio scenico. L’attore fissa i confini di queste sezioni mediante gli oggetti che si trovano in scena. Nell’ambito dello svolgimento della pièce, i cerchi di attenzione mutano continuamente, ora si dilatano, ora si restringono a seconda del carattere delle azioni fisiche. Un centro d’attenzione mobile è un grande aiuto nella creazione della “dominante scenica”.
La tensione muscolare dell’attore è uno dei fattori che ostacolano un corretto stato d’animo scenico. La tensione muscolare sorge come una specie di reazione motoria in risposta a numerosi stimoli estranei: la vista della sala, un arredamento insolito che circonda l’artista in scena, la sua agitazione collegata all’imminente attività creativa. La tensione muscolare impedisce all’attore di realizzare azioni fisiche disinvolte, ostacola la reviviscenza scenica, la fiducia nel “magico se” e nella sua simulazione. Ecco perché la lotta alla tensione (sciogliere i muscoli) costituisce una fase importante del lavoro dell’artista.
Stanislavskij fa l’esempio dell’allievo che, tenendo sollevato l’angolo di un pianoforte, non è in grado di moltiplicare 37 per 9 o di ricordare i negozi della strada in cui abita. Per noi è chiaro il meccanismo del fenomeno descritto: un forte focolaio di eccitazione su un recettore motorio, in base alla legge di dominanza, inibisce l’attività di quelle sezioni del cervello che devono garantire il calcolo o la riproduzione di impressioni acquisite in precedenza. Esattamente così, la tensione muscolare dell’artista in scena esercita un’azione frenante della sua attività creativa.
Nel corso di specifici esperimenti, N. K. Verescagin (1956) dimostrò che un focolaio di eccitazione su un recettore motorio, provocato da cause esterne, si amplifica a spese di impulsi provenienti da formazioni nervose sensoriali (recettori) posti sulla massa muscolare. I  muscoli tesi, secondo il meccanismo di “relazione inversa”, mantengono e potenziano il focolaio di eccitazione che li fa contrarre.
La via più sicura per l’eliminazione della tensione muscolare passa, tuttavia, attraverso la creazione di una nuova dominante più forte, attraverso un impulso talmente forte da riprodursi in scena. Sebbene sia possibile anche una tensione muscolare immediata, volontaria, l’eliminazione definitiva della tensione muscolare si raggiunge solo per via indiretta, in seguito alla nascita di una “dominante scenica”.
Per la realizzazione di azioni fisiche naturali, verosimili, all’artista occorrono competenze adeguate: la plasticità dei movimenti, un apparato fisico sensibile e preparato. Alla maestria e alla perizia tecnica dell’artista, K. S. Stanislavskij attribuiva un significato straordinariamente grande. Le competenze non sono altro che complessi di riflessi condizionati sempre più articolati. Sappiamo che i riflessi condizionati si formano attraverso le ripetute combinazioni di segnali convenzionali con reazioni di rimando, che la perfezione del funzionamento delle relazioni temporanee dipende dalla frequenza del loro riprodursi, mentre lunghi intervalli portano all’estinzione dei riflessi condizionati. Da qui deriva la necessità di un allenamento continuo, di un continuo esercizio delle competenze sviluppate, della loro instancabile pratica e messa a punto. L’insieme delle competenze professionali dell’attore (aspetto esteriore, plasticità, modo di parlare espressivo, capacità di indossare i costumi ecc.) creano una ottimale sensibilità scenica, grazie alla quale l’apparato fisico e vocale dell’attore risultano più adeguati ad esprimere le emozioni del personaggio.
Fino ad ora abbiamo parlato delle azioni fisiche come della componente chiave di una situazione corrispondente alla reviviscenza scenica. Ci siamo potuti convincere che tutte le innumerevoli tecniche del “sistema” di K. S. Stanislavskij (l’azione trasversale, le sezioni e i compiti, il “come se”, l’immaginazione, i contatti ecc.), in effetti, servono alla giustificazione e alla concretizzazione delle azioni fisiche, si concentrano chiaramente intorno ad esse. Tuttavia, oltre al loro significato contingente, le azioni fisiche esercitano un’influenza diretta e immediata sui meccanismi fisiologici delle emozioni. Poiché le componenti motorie rappresentano il “fulcro motore” delle reazioni emotive (A. A. Uchtomskij, P. K. Anochin, M. P. Mogendovic), il libero avviamento di queste componenti agevola la riproduzione di un atto riflesso generale con tutte le sfumature vegetative e motorie – involontarie che sono connesse ad esso.
Abbiamo tentato di rappresentare con uno schema le due vie di influenza delle azioni fisiche sullo stato emotivo dell’artista. Mediante questo duplice percorso, le azioni fisiche spontanee creano un focolaio di eccitazione dominante, la base della reviviscenza scenica.
K. S. Stanislavskij riuscì a superare il punto più vulnerabile di tutte le metodologie di autosuggestione un tempo proposte dagli psiconeurologi e, cioè, la mancanza di una zona di rapporto. Tramite appunto le azioni fisiche, l’individuo forma spontaneamente un centro di autoipnosi, fatto che implica un’intera serie di conseguenze straordinariamente importanti.
1.    Tutti i segnali linguistici e spontanei (il testo della pièce, le osservazioni del regista, i risultati dell’immaginazione creativa, il “come se” ecc.) hanno la possibilità di indirizzarsi verso il focolaio dominante disponibile che li concretizza e li assimila. In altri termini, poiché non è l’ipnotizzatore a creare la zona di rapporto, ma l’artista in persona che crea in piena rispondenza a concreti compiti creativi, si verifica qualcosa di simile alla suggestione ipnotica.
2.    La nascita di una dominante stabile garantisce una certa predominanza del significato scenico degli oggetti che circondano l’artista (le mura della fortezza, Ofelia) sul loro significato reale (i teloni dipinti, l’attrice Ivanova). Sappiamo che questa predominanza non può divenire totale e assoluta, che lo “scambio” di due significati ha sempre un carattere dinamicamente “oscillante”, tuttavia l’inibizione di una dominante scenica prodotta, schiaccia sempre quei collegamenti nervosi che sono alla base dell’esperienza di vita quotidiana.
3.    L’inibizione collegata (indotta) attorno a un focolaio dominante agevola l’astrazione, la concretizzazione dei segnali; accosta questi segnali a rappresentazioni sensoriali e, con le stesse, amplifica bruscamente la loro influenza sulla sfera affettivo – vegetativa.
4.    Infine, la dominante scenica garantisce la concentrazione dell’attenzione dell’attore, libera l’azione da fattori di distrazione e porta alla “solitudine pubblica”, la cui necessità è stata ripetutamente indicata da K. S. Stanislavskij.
In questo modo, le azioni fisiche creano tutte le premesse indispensabili per la nascita della reviviscenza scenica. Tuttavia, nel processo creativo dell’immedesimazione K. S. Stanislavskij acutamente ha notato il momento del passaggio, quasi impercettibile, della predisposizione alla reviviscenza, all’esistenza di un sentimento, alla condizione dell’”io sono”, cioè io vivo nel personaggio di Amleto, io sento come lui. Questo passaggio può essere, in una certa misura, paragonato al passaggio dell’estinzione critica delle reazioni spontanee in una situazione generalizzata di rilassamento ipnotico, di subordinazione agli ordini dell’ipnotizzatore, di dipendenza nei loro confronti.
Secondo il pensiero di K. S. Stanislavskij, la nascita della reviviscenza scenica, al pari della creazione dello sfondo, cioè delle condizioni più propizie per lo sviluppo di serie complesse di reazioni emotive spontanee, di regola, richiede un “impulso di avviamento” supplementare, uno stimolo, un “catalizzatore”.

Schema che illustra la posizione delle azioni fisiche nel processo artistico di creazione di un personaggio scenico.

La fisiologia dell’attività nervosa superiore, già da tempo, ha evidenziato due tipi fondamentali di segnali convenzionali. Alcuni stimoli (di avvio) provocano una reazione le cui manifestazioni esteriori sono espresse in modo del tutto determinato (movimenti, salivazione ecc.). L’azione di uno stimolo di secondo tipo (di fondo) non sviluppa reazioni esterne. La loro funzione biologica consiste in una predisposizione, in una “sintonizzazione” della corteccia dei grandi emisferi a un’attività imminente. Nel caso degli esperimenti con scambio, abbiamo già conosciuto le azioni degli stimoli di fondo. Completeremo le nostre descrizioni sulle influenze di tono con altri due esempi tratti dalla fisiologia dell’attività nervosa superiore degli animali.
Se si metterà un cane in una gabbia al buio, l’entità dei riflessi condizionati alimentari risulterà smorzata rispetto all’entità dei riflessi condizionati alla luce. Uniremo alla permanenza al buio un qualsiasi stimolo persistente che prima non aveva esercitato nessuna influenza sui riflessi condizionati. Dopo qualche azione combinata, questo stimolo persistente comincerà a ridurre l’entità dei riflessi condizionati anche nel caso in cui l’illuminazione della gabbia risulti immutata. Vediamo che il nostro stimolo, di per sé, non provoca alcuna attività nell’animale da laboratorio (per es. salivazione). L’influenza di questo stimolo si riduce alla formazione di un certo livello di fondo su cui agiscono segnali alimentari convenzionali.
I numerosi esperimenti di P. S. Kupalov e dei suoi assistenti (1955) sulla variazione dei valori di un rinforzo alimentare, confermano l’esistenza di specifici meccanismi condizionati-riflessi che predispongono la corteccia dei grandi emisferi a recepire i dati di un’attività successiva attraverso l’organizzazione del livello del suo stato funzionale. Per un’esatta interpretazione materialistica dei fenomeni, è importante ricordare che il presente stato funzionale del cervello è un mosaico di focolai di eccitazione e inibizione causati, a loro volta, da influenze provenienti dall’ambiente esterno, da impulsi pervenuti al cervello precedentemente.
Nel caso di una riproduzione volontaria delle emozioni, abbiamo a che fare con relazioni straordinariamente complesse tra influenze di avvio e di fondo, infinitamente più complesse degli esempi da noi addotti. E tuttavia il discorso chiaramente riguarda un solo ordine di fenomeni, mentre le idee di K. S. Stanislavskij sulla formazione dello sfondo e sull’impulso di avvio, si basano sulle leggi oggettive dell’attività cerebrale.
Le due componenti di una riproduzione volontaria delle emozioni sono: la formazione di un’adeguata sensibilità scenica e l’impulso di avvio, “catalizzatore” non equipollente. Un ruolo chiave, decisivo senza dubbio spetta alla prima, cioè alla formazione della sensibilità scenica. Appena s’è creato lo sfondo, appena s’è approntato un terreno propizio, un’infinita quantità di stimoli dell’ambiente che circonda l’artista sono atti a divenire “catalizzatori” della reviviscenza scenica, a manifestarsi in qualità di impulso d’avvio di reazioni emotive.
I “catalizzatori” sono dovunque: nelle percezioni, nelle azioni, nei contatti, nei dettagli dell’arredamento, nella messinscena ecc. I particolari esteriori della scena possono essere buoni stimolatori della sensibilità. K. S. Stanislavskij ha mostrato una grande preoccupazione sull’esatta corrispondenza del dettaglio esteriore all’essenza della pièce. Una loro discrepanza non solo riduce l’effetto dello spettacolo sullo spettatore, ma ostacola fortemente l’attore, impedisce la nascita della reviviscenza scenica.
Sebbene la “catalizzazione” di reazioni emotive, in molti casi, non richieda sforzi particolari da parte dell’attore, il metodo delle azioni fisiche lo correda di una serie di tecniche che agevolano l’innesto dei “meccanismi d’avvio”. Teniamo presente il cosiddetto adattamento. L’adattamento, di regola, si basa su due fenomeni fisiologici strettamente collegati fra loro: il fattore novità e il contrasto.
Da tempo i fisiologi hanno stabilito che uno stimolo nuovo, debole, dà spesso una reazione notevole rispetto a uno stimolo intenso ma applicato prima. La natura di questo fatto non è ancora del tutto chiara. Si possono riportare solo alcune considerazioni concernenti l’essenza fisiologica della novità.
Primo: ogni nuovo stimolo porta in sé una reazione orientativa, di ricerca (“cos’è” un riflesso, secondo I. P. Plavov) che innesca componenti motorie e vegetative. Secondo: l’azione di uno stimolo qualsiasi, in relazione al suo ripetersi, tende ad essere complicata dall’inibizione, al tempo stesso il fenomeno dell’”assuefazione” rappresenta una legge biologica universale. Lo si poté osservare nei ciliati, negli echinodermi e nei molluschi, nel corso di uno studio delle reazioni cerebrospinali (R. Dykman, P. Shurrager, 1956), dell’attività elettrica dei recettori (V. G. Boksha, 1957), delle reazioni cardiovascolari (V. V. Frolkis e A. V. Frolkis, 1956) e delle risposte elettriche sulla corteccia cerebrale.
L’asportazione della corteccia dei grandi emisferi non elimina l’assuefazione sebbene ne vari sostanzialmente la natura (D. P. Matjuskin, 1956; O. Sager, G. Wendt, M. Moisanu, V. Cirnu, 1958; M. Jouvet, F. Michel, 1959). Molti autori legano questo processo degli animali superiori al funzionamento della struttura reticolare (M. Jouvet, 1956; A. Gasteaux, 1957; A. Cavaggioni, G. Giannelli, H. Santibanez, 1959: A. I. Roitbak, 1959), dimostrando chiaramente la corrispondenza del fenomeno dell’assuefazione all’estinzione dei riflessi condizionati (M. Jouvet, 1956; A. I. Roitbak, 1959).
Ci preme sottolineare che l’”assuefazione” degli animali superiori  e dell’uomo ha un tratto rigidamente selettivo. Basta variare una qualunque delle caratteristiche dello stimolo che la reazione estinta si manifesterà nuovamente. (E. N. Sokolov, 1959; E. N. Sokolov e N. P. Paramonova, 1961).
In questo modo, la reazione a uno stimolo nuovo, da una parte è più libera dai sintomi di un’inibizione disattivata, e dall’altra risulta sempre rafforzata dai meccanismi del riflesso di orientamento innato.
Il fattore novità rappresenta la vera base per l’adattamento dell’attore. La novità della simulazione creativa, il repentino trasferimento dell’azione verso un’altra parte dello spazio scenico, i cambiamenti nell’interpretazione del partner possono diventare potenti stimolatori di sentimenti. Negli adattamenti l’inatteso è sempre prezioso. Una battuta significativa pronunciata in tono scherzoso, non solo produce un grande effetto sugli spettatori, ma stimola lo stesso attore, innesca i meccanismi inconsci della reviviscenza scenica.
Evidenziando questa proprietà degli adattamenti, K. S. Stanislavskij esige, tuttavia, un’influenza indiretta sullo spettatore attraverso la sorpresa, prima di tutto per l’attore. Egli avverte che i tentativi di ridurre ogni adattamento finalizzato a se stesso, ad un effetto calcolato apposta per gli spettatori, comporta la necessità di servirsi di trucchi, divertire. Gli adattamenti in nessun caso devono violare la logica e la verosimiglianza delle azioni fisiche, né devono contrastare le situazioni date dalla pièce.
Come esempio di adattamento corretto, si può addurre l’episodio con lo stornello tratto dallo spettacolo La ragazzina della fabbrica, rappresentato al Teatro “Comsomol Lenin” di Leningrado. Quando Zenja Sul’zenko (l’attrice Doronina) sente la dichiarazione d’amore di Fedja, prima ha  un malore e poi, per la felicità, canta ad alta voce… uno stornello, saltellando sul posto.
Lo spettatore è per un attimo disorientato, lo colpisce l’inaspettata reazione dell’eroina. Nella frazione di un secondo, lo spettatore ricorda quando Zenja era solita reagire con uno stornello ai fatti che le accadevano intorno, come  in modo spontaneo e sincero le sfuggivano ignote parole sulla sua gioia di ragazza. Zenja non può, proprio non può dissimulare la gioia, il suo entusiasmo. Nel suo canto c’è un che di fanciullescamente immediato che non si può e non serve nascondere. L’adattamento dell’attrice avvince lo spettatore, gli fa vivere il momento più appassionante della rivelazione artistica.
Un ruolo importante negli adattamenti dell’attore spetta al fenomeno del contrasto. Alla base del contrasto c’è sempre il confronto degli opposti in base al loro tipo di effetto, al tempo stesso la forza di uno stimolo aumenta notevolmente se agisce subito dopo o sullo sfondo di uno stimolo ad esso contrario.
Studiando le percezioni di effetti contrastanti, ci siamo imbattuti in vari meccanismi fisiologici. Ecco alcuni dati.
Il risultato di un’eccitazione dipende dallo stato funzionale contingente del sistema nervoso. In situazioni normali la luce è uno stimolo più debole del suono. Al buio, il valore di un riflesso condizionato ad uno stimolo luminoso è al pari di quello ad uno stimolo sonoro (A. I. Makarycev, 1947). Il fatto è che al buio cresce la sensibilità del recettore visivo e aumenta la forza fisiologica degli stimoli luminosi.
I rapporti induttivi giocano un grande ruolo nei fenomeni di contrasto. Sappiamo che un focolaio di eccitazione crea attorno a sé una zona di inibizione (induzione simultanea), che l’inibizione nasce al posto di quella che era un’eccitazione non appena sarà stata rimossa (induzione consecutiva).
Grazie all’induzione, l’effetto di un’eccitazione dipende, in misura significativa, dal fatto che, dopo qualche stimolazione, il nostro segnale entra in azione, trova sulla corteccia dei grandi emisferi una condizione qualsiasi dei reticolati nervosi. Così l’effetto può mancare del tutto se il segnale è applicato dopo una forte eccitazione che aveva provocato un’inibizione consecutiva indotta. Particolari esperimenti dimostrano che la diversificazione (differenziazione) degli stimoli si ottiene prima se uno stimolo differenziato (destabilizzato) si alterna costantemente con uno stimolo di segno positivo (stabilizzato). Il meccanismo di questo fenomeno consiste nella somma dell’inibizione differenziale con l’inibizione indotta sorta dopo l’azione dello stimolo di segno positivo.
I cosiddetti riflessi ad angolazione, i riflessi sul carattere di un oggetto che si manifesta solo attraverso il confronto di quell’oggetto con altri simili, hanno un rapporto diretto col fenomeno del contrasto (V. Protopopov, N. N. Ladygina-Kotz, M. M. Kol’cova, 1952; V. I. Cumak, 1956, 1957 e altri). Se sviluppiamo un riflesso condizionato alimentare con due metronomi a 120 battiti al minuto e procederemo ad una differenziazione, diminuendo la frequenza di 60 battiti al minuto per poi portare un metronomo a 200 e l’altro a 120, allora quello a 200 battiti acquisterà un valore di segno positivo nel momento in cui il metronomo già di segno positivo, quello a 120 battiti, risulterà privo di effetto. Viceversa, azionando i metronomi a 60 e 30 battiti al minuto, il metronomo già di segno negativo, quello a 60, darà un effetto di segno positivo.
Osserviamo che, nel caso in questione, ha un’importanza decisiva non la frequenza assoluta di un metronomo, ma la valutazione su quale dei due oscilli di più e quale di meno.
M. M. Kol’cova (1952) registra interessanti osservazioni sul comportamento dei bambini, nell’ambito dei riflessi originari. Si poneva sempre davanti a un bambino un cucchiaino da dessert nel momento in cui gli adulti erano a tavola. Quando la madre, per sbaglio, diede al bambino un cucchiaio da tavola, lui mise accanto al piatto della madre quel grosso cucchiaione.
Un altro esempio. Un bambino giocava piacevolmente con un piccolo gatto bianco e aveva paura di un cane bianco. Avendo visto una volta una grossa capra bianca, smise di spaventarsi dei cani giacché la capra era, nelle dimensioni, di gran lunga più grande del cane.
I meccanismi fisiologici da noi esposti (l’induzione, i riflessi ad angolazione, il ruolo dello sfondo) non esauriscono la natura del contrasto. E, tuttavia, l’esistenza di questi meccanismi ci persuade che l’utilizzo dei fenomeni di contrasto, nell’attività scenica, si basa su precise leggi oggettive.
La regola di K. S. Stanislavskij – “quando interpreti un cattivo, scopri dove egli è buono” – non solo facilita la caratterizzazione a tuttotondo del soggetto, ma, in forza del contrasto, permette di rilevare, di evidenziare i tratti più importanti del personaggio. Su uno sfondo di sporadiche manifestazioni di bontà, il tratto fondamentale del personaggio interpretato, la cattiveria, diviene più espressivo e vivido.
La reviviscenza scenica sorta per effetto dell’”impulso di avvio” sullo sfondo di uno stato d’animo adeguato, s’impadronisce dell’attore per un certo tempo più o meno lungo. La scomparsa della reviviscenza richiede nuovi impulsi, nuovi “catalizzatori”. Se l’artista  manterrà la giusta predisposizione scenica, questi “catalizzatori” non tarderanno a comparire e ad esercitare la loro azione. Il processo creativo si trasforma in una serie di intuizioni spontaneamente suscitate. Sappiamo che il terreno propizio per la reviviscenza scenica, creato dall’artista mediante le azioni fisiche motivate dai compiti, dal “come se”, dall’immaginazione e dai contatti, rappresenta la base della serie delle intuizioni.
Supponiamo che all’attore sia riuscito di vivere i sentimenti del personaggio interpretato. Come conservare questi sentimenti, come garantire la loro reiterata riproduzione in ogni spettacolo? Stanislavskij spiega che una sola riproduzione immediata di emozioni vissute è possibile solo in teoria ed è un fenomeno estremamente raro.
Non “risuscitare” i sentimenti, ma creare ripetutamente il terreno per le emozioni sceniche, ecco a cosa deve tendere l’attore in ogni spettacolo. La riproduzione di azioni fisiche adeguate costituisce la base per la preparazione del terreno, contemporaneamente le azioni fisiche stesse, le messinscene riuscite, l’uso di oggetti reali e immaginari, in base alla legge dei nessi transitori, sono atti a riportare in vita sentimenti vissuti in precedenza. Se questo non si è verificato, è necessario ricorrere agli adattamenti, all’immissione di nuovi “come se” e di nuove circostanze date. La novità della simulazione, la sorpresa degli adattamenti utilizzati saranno i potenti “catalizzatori” delle reazioni emotive. Il metodo di  Stanislavskij esige dall’attore un atteggiamento creativo per ogni spettacolo, per ogni uscita in scena.
La nascita della reviviscenza scenica non solo rende più ricca, più completa, più espressiva la manifestazione esteriore delle emozioni, ma mobilita anche quei meccanismi propri della sfera degli atti intuitivi che non hanno un chiaro riflesso nel secondo sistema di segnali. Grazie a questi meccanismi, l’attività creativa dell’attore si arricchisce di espedienti che non si potrebbero ottenere attraverso un percorso puramente logico.
Se, da un lato, il metodo delle azioni fisiche ha un’affidabilità e un’efficacia molto più grandi delle tecniche di autosuggestione fino a questo momento a noi note, da un altro esso è vantaggiosamente diverso dall’ipnosi. Proprio perché nel processo di reviviscenza scenica l’attore in persona crea una zona di auto rapporto, egli mantiene un controllo totale e continuo sui meccanismi involontari. Utilizzando il metodo delle azioni fisiche, l’attore ha in mano veramente il grado di riconversione del valore scenico e del valore reale degli oggetti che lo circondano. Calandosi nella parte, valuta sempre criticamente il suo comportamento e, sullo sfondo della reviviscenza così apparsa, sfrutta pienamente la capacità professionale, le abilità, l’esperienza, i mezzi espressivi esteriori.
Intendiamo evidenziare soprattutto questo motivo in relazione alle diffuse tendenze degli studiosi di teatro occidentali che considerano l’attività creativa dell’attore come un processo di manifestazione del “subconscio”, come un gioco di “motivazioni remote” e di “attitudini inconsce”. Il metodo creativo di K. S. Stanislavskij non abbandona mai l’attore alla forza della cieca intuizione. Esso segna la vittoria di un’ “attività vitale e cosciente”.

AI CONFINI DELLA SCIENZA E DELL’ARTE

L’influenza reciproca e il reciproco arricchimento di diversi, talvolta assai distanti settori della conoscenza sono un tratto caratteristico dell’attuale fase evolutiva della scienza. Come risultato di una simile compenetrazione, sorgono davanti ai nostri occhi scienze del tutto nuove: la biofisica, la cibernetica, l’astronautica. La teoria della creazione artistica, ivi compresa quella scenica, è difficile che debba ridursi ad un aspetto di questo fecondo e affascinante processo. In uno dei suoi discorsi, J. P. Frolov ha giustamente ricordato che gli astrattisti e i modernisti vantavano la loro affinità con la scienza moderna: con la matematica, la fisica, l’astronomia sostenendo che il realismo era un metodo primitivo, ‘non scientifico’ e perciò irrimediabilmente sorpassato. Ecco perché per noi è così cara e importante la vera unità dell’arte realistica d’avanguardia con le vette della scienza moderna, una delle quali è la dottrina materialistica di I. P. Pavlov.
Proviamo una grande soddisfazione che il periodo delle polemiche, infelicemente limitate, su «fisica o lirica?» sia stato utilizzato per i primi tentativi di una sintesi reale di queste due sfere dell’umana attività.
L’attore reciterà meglio e in maniera più convincente se conoscerà i meccanismi fisiologici delle emozioni? Noi crediamo di no. L’attore deve studiare la fisiologia del sistema nervoso centrale? Magari per un ampliamento del suo orizzonte. Ma la moderna fisiologia può e deve dimostrarsi utile per la giustificazione scientifica del programma formativo dei futuri attori, per l’analisi profonda dei fondamenti teorici del mestiere d’attore, per l’elaborazione di una serie di problemi critici e attuali sulla gestione del teatro sovietico.
Conviene soffermarsi su questa domanda, tanto più che nel nostro ambiente teatral – pedagogico e teatral – critico esistono spettacoli inaccettabilmente semplicistici sui modi di applicazione dello studio di Pavlov alla teoria e alla pratica del teatro. Quando V. O. Toporkov, in un plenum del Soviet V.T.O., fece un’osservazione assolutamente giusta sul fatto che il metodo di K. S. Stanislavskij si basasse sulle leggi oggettive dell’attività nervosa superiore scoperte da I. P. Pavlov, cominciarono ad accusarlo della tendenza a «sostituire l’ispirazione con la riflessologia», del tentativo di considerare «l’arte come la scienza dei riflessi» (N. Velechova, 1957).
È assurdo pensare che la fisiologia dell’attività nervosa superiore sia preposta a confezionare ricette per la creazione di personaggi scenici, mentre l’atto creativo dello spettacolo teatrale si trasforma in un esperimento di massa sulla «produzione di riflessi condizionati». Riscontriamo un’influenza della fisiologia dell’attività nervosa superiore, innanzitutto, nella giustificazione scientifica dell’esattezza oggettiva del sistema, nella spiegazione del fatto che molti punti del sistema riflettono le leggi oggettive del funzionamento cerebrale dell’uomo. L’analisi fisiologica del sistema permetterà di distinguere precisamente gli espedienti artistici di Stanislavskij, che costituiscono il suo «stile» artistico e registico straordinariamente personale, dalla «grammatica elementare dell’arte drammatica», ugualmente vincolante «per tutti senza esclusione di creatori artistici».
Il contatto creativo fra critica d’arte e fisiologia deve avere un significato particolare per la pedagogia teatrale, per una metodologia di formazione su base scientifica del futuro attore e regista. Il timore che l’osservazione delle leggi oggettive dell’arte scenica conducano ad un livellamento della personalità di attori e registi è tanto assurdo quanto assurda è la paura che scrittori e poeti perdano la loro originalità artistica nel seguire le regole grammaticali della lingua letteraria.
Nel corso degli ultimi anni, molte volte è capitato di sentire che il sistema di Stanislavskij e il suo metodo delle azioni fisiche sia diametralmente opposto a quell’aspetto dell’arte scenica che si è soliti definire con il termine non particolarmente scientifico di «teatralità». Prima di tutto, tentiamo di chiarire qual è la natura della convenzione teatrale, da dove deriva, in cosa si estrinseca.
La sua funzione educativa è il tratto prevalente che qualifica l’arte come genere di attività umana, come forma di coscienza collettiva. L’arte non rispecchia semplicemente la realtà ma impone allo spettatore un preciso punto di vista su questa realtà, un preciso atteggiamento per ciò che l’arista rappresenta.
Rispetto al contenuto, la parzialità dell’arte si manifesta nella scelta delle scene e dei personaggi rappresentati, nella loro sintesi artistica (tipizzazione). Allo scopo di potenziare l’effetto sullo spettatore, l’arte in generale, l’arte del teatro in particolare, ricorre all’astrazione dalla realtà per determinare certi aspetti di una scena difficile, importanti dal punto di vista dell’artista.
L’astrazione dalla realtà è peculiare anche della scienza ma lì si attua in concetti astratti equivalenti per l’individuo a paradigma di molti oggetti o eventi. L’astrazione dalla realtà nell’arte si manifesta in forma di enfatizzazione di un determinato aspetto di un fatto concreto. Uno dei modi per concentrare l’attenzione dello spettatore su questo o quell’aspetto della scena rappresentata è la caricatura, l’esagerazione dell’aspetto in questione o l’eliminazione artificiale, la smussatura di altri suoi aspetti.
A proposito dell’arte scenica si può dire che la teatralità è l’astrazione dalla realtà mediante l’enfatizzazione intenzionale (tramite esagerazione o isolamento) di determinati aspetti delle scene rappresentate. Se l’astrazione dalla realtà è permessa nel contenuto di uno spettacolo drammatico, nella forma della sua incarnazione scenica, allora non è legittimo ammettere un’analoga astrazione dalla realtà (cioè ammettere la convenzione teatrale) nella stessa reviviscenza scenica?
Analogamente a come intensifichiamo in palcoscenico, allo scopo di un’espressività massima, un aspetto della scena, attenuando, smorzando gli altri, non dobbiamo forse dare risalto ad alcuni segni esteriori della manifestazione dei sentimenti senza preoccuparci del resto? E se i «sentimenti in generale» non fossero un difetto, ma la condizione necessaria di tale spettacolo? E, infine, l’ultima domanda: non si deve mettere il grado d’astrazione dalla realtà, nel contenuto e nella forma di uno spettacolo, in corrispondenza al grado di sintesi dei sentimenti umani?
Se rispondiamo a tutte le domande qui poste in modo affermativo, allora l’arte della rappresentazione ha «il diritto di coesistere» con l’arte della reviviscenza scenica. Infatti l’arte della rappresentazione è, dopotutto, anche astrazione dei segni esteriori della manifestazione dei sentimenti, della stessa reviviscenza come reazione emotiva integrale.
L’arte della rappresentazione è anche riproduzione dell’immagine generalizzata del quadro esteriore della reviviscenza, dei suoi tratti più caratteristici, più tipici, più frequentemente riscontrati. L’arte della reviviscenza ha la possibilità della caricatura intenzionale, dell’esagerazione di questo o quell’aspetto del quadro esteriore della reviviscenza, della facoltà di una riproduzione isolata di questo o quel segno.
Più avanti tenteremo di dimostrare che lo sforzo verso una sintesi artistica, nel contenuto e nella forma di uno spettacolo, non richiede la sostituzione dell’arte della reviviscenza scenica con l’arte della rappresentazione; più di tutto, ad uno spettacolo con un alto grado di sintesi artistica è particolarmente necessaria la reviviscenza scenica con tutta la sua attendibilità di vita e immediatezza di sentimenti.
La sintesi artistica, l’astrazione dalla realtà nella forma della convenzione teatrale, fa appello alla capacità d’astrazione della mente umana. All’atto di una riproduzione in scena di sentimenti umani non è sufficiente che lo spettatore capisca quale sentimento stia provando il personaggio scenico in un dato momento.
Il sentimento comune riscontrato nello spettatore è sempre l’obiettivo dell’incarnazione in scena di emozioni umane. Sappiamo che una rappresentazione, cioè la riproduzione intenzionale del quadro esteriore della manifestazione dei sentimenti, priva questo quadro di quei sottili dettagli che si manifestano involontariamente e che hanno una particolare forza d’effetto. Se il quadro della manifestazione esteriore di un’emozione diviene ancor di più generalizzato, convenzionale, la forza d’influenza sulla sfera emotiva dello spettatore si ridurrà straordinariamente per via della legge sopra stabilita che fa della concretizzazione di un’immagine la condizione necessaria dell’influsso sulla sfera emotiva.
L’emotività è uno dei tratti più caratteristici dell’arte. Quanto più alto è il grado di sintesi nel contenuto e nella forma di uno spettacolo, tanto più grave è il pericolo di un calo del suo effetto emotivo, tanto più importante è la necessità della reviviscenza scenica – di una potente leva d’effetto sui sentimenti dello spettatore. Semplificando un po’ il concetto, si può dire che uno spettacolo, allestito con una marcata tendenza alla «teatralità», ha bisogno della reviviscenza scenica degli attori più del cosiddetto spettacolo «di vita quotidiana, realistico».
«La tragedia ottimistica» di Višnevskij-Tovstonogov c‘interessa proprio perché la sua ampiezza di sintesi epica, sottolineata e dalla simbolicità della messa in scena, e dall’estetica scenografica priva della solita puntualizzazione, e finanche dei nomi degli eroi (il Commissario, il Comandante, il Capobanda), si combina ad una concretizzazione estrema di sentimenti subordinati alle circostanze date del personaggio in questione. Sostituite questa tensione di passioni con un’espressione convenzionale di «ira», di «odio» ecc. e lo spettatore indifferente, magari senza  alcun interesse, seguirà gli espedienti di un regista che ammassa una «teatralità» sull’altra.
Qualunque tecnica di allestimento teatrale, persino la più spettacolare, diviene vacua e posticcia non appena l’azione degli eroi perde la sua motivazione e giustificazione interiore.
Il particolare interesse per l’arte della reviviscenza scenica nella realizzazione di uno spettacolo con un alto grado di astrazione dalla realtà spiega anche che l’astrazione dalla realtà spesso correda l’attore di un «nutrito programma», dirige l’attenzione dello spettatore sulla sua interpretazione, rende visibile ogni particolare della manifestazione esteriore dei sentimenti.
In uno spettacolo «di ordinaria vita quotidiana», l’attendibilità di ciò che accade è intensificata dall’attendibilità e dalla concretizzazione della situazione in cui recita l’attore: dalle scenografie, dall’attrezzeria, da una presentazione estetica luminosa e vibrante. Quando l’attore entra in scena, con scenografie «approssimative» chiamate a sottolineare il significato generale di ciò che dice e fa (come, per esempio, Julius Fucik nell’ultima scena de «Il caro prezzo dell’immortalità» di G. Tovstonogov), egli può convincere ed emozionare lo spettatore solo con la sua interpretazione, solo con la verità e con l’attendibilità della manifestazione dei sentimenti del personaggio interpretato.
Proprio l’allestimento dell’azione convoglia l’attenzione dello spettatore sull’interpretazione dell’attore; ogni inesattezza, ogni minima stonatura nella manifestazione dei sentimenti, portata dal «nutrito programma», diviene vistosa e intollerabile. Ha senza dubbio ragione N. Ochlopkov (1956) quando dice che l’attore può sconvolgere profondamente lo spettatore recitando senza scena, senza scenografie, senza musica, arredamento, trucco e costume. Ma che razza di recitazione sarà mai?
In uno spettacolo con una spiccata «teatralità» di allestimento scenico, la recitazione dell’attore deve spesso colmare le lacune della rappresentazione teatrale (ricorderemo la straordinaria illusione di oscurità in una scena vivacemente illuminata che, con la loro recitazione, creano gli artisti cinesi nella famosa pantomima «In una locanda»). E in questo rapporto, l’arte della reviviscenza scenica appare come una potente alleata dell’attore-interprete, non in contrasto, ma in armonia con la sua perizia professionale e tecnica.
La contraddizione che esisterebbe fra la «teatralità» e l’arte della reviviscenza è una contraddizione falsa, inventata. Tenteremo di dimostrarlo con l’analisi di un esempio concreto tratto da un esercizio di allestimento teatrale di B. Ravenskich.
B. Ravenskich, avendo dichiarato all’inizio di un suo articolo (Teatro, 1957, N° 7, pag. 43-48) che «la nostra idea… può essere incarnata solo attraverso l’autenticità di una tensione estrema di grandi passioni e sentimenti», racconta come sia riuscito ad allestire la scena con Akim (lo spettacolo è La potenza delle tenebre) «tramite verità», «tramite reviviscenza». Solo dopo aver messo Akim (Il’inskij) con le spalle a ciò che accadeva in scena, il regista ottenne un’enorme forza di espressività avendo trasformato l’episodio con Akim in simbolo della coscienza umana ferita. Non si poteva progettare la scena, afferma Ravenskich, «attenendosi unicamente alla verosimiglianza della vita».
È incomprensibile che Ravenskich sembri inverosimile in questa scena? Un Akim di spalle? Forse Akim non poteva mettersi proprio così, senza volere, non essendo nella condizione di guardare quello che accadeva nell’isba, in tutto il suo complesso, poiché protestava contro la violazione di quelle norme etiche che a lui, Akim, sembravano inconfutabili? Al contrario, un Akim di questo genere, così come I. Il’inskij e B. Ravenskich lo avevano impostato, per la durata di tutto lo spettacolo doveva muoversi nella scena in questione esattamente così.
Appunto perciò, e il suo espediente soddisfece il regista, e produsse un grande effetto sullo spettatore perché il comportamento di Akim nella scena della stufa corrispondeva a tutta la sua linea interiore di personaggio. A Ravenskich sembrò che la sua soluzione scenica non fosse legata alla «verità della reviviscenza» e alla «verosimiglianza della vita», ma questo si dice soltanto quando ciò che sembra non sempre è quel che è.
Perché mai il regista oppone la «teatralità» della sua soluzione alla «verità» e alla «reviviscenza»? Parlando del fiasco che gli capitò nel tentativo di allestire la scena «tramite verità», «tramite reviviscenza», Ravenchich non ne fa un suo errore tipico: egli perde di vista l’obiettivo e la possibilità del metodo delle azioni fisiche. Il metodo di Stanislavskij non è un metodo di allestimento scenico, il metodo di Stanislavskij non darà mai «di per sé» soluzioni sceniche confezionate. Ma, creando una corretta disposizione scenica, innesca quei meccanismi creativi inconsci che danno all’attore la possibilità della reviviscenza, e aiutano il regista a trovare la tecnica di allestimento teatrale più sicura ed espressiva.
Il racconto di B. Ravenskich su come egli abbia trovato la soluzione per la scena con Akim, conferma una volta di più che l’individuo non si rende conto di tutte le fasi del processo creativo, che l’artista, non di rado, si rende conto solo del prodotto finito il quale, come è accaduto anche a Ravenskich, gli sembra «esser preso chissà da dove» (I. P. Pavlov).
L’assenza di contraddizione fra «teatralità» e reviviscenza scenica si basa anche sul principio, empiricamente stabilito dagli operatori di teatro, che, una qualsiasi convenzione teatrale è sempre una convenzione per lo spettatore e mai per i personaggi dello spettacolo. Secondo la giusta affermazione di A. Dikij, gli avvenimenti di una pièce fantastica sono realtà per i suoi personaggi fantastici. La saggezza nazionale, sin dai tempi antichi, riteneva la fiaba una rappresentazione originale, immaginaria dei fatti della vita reale. Questo è presente nel significato della fiaba, nel germe della sua origine, nella giustificazione della sua esistenza come varietà della creazione artistica degli uomini. L’incredulità dei personaggi della fiaba sull’inverosimile realtà di ciò che sta accadendo distruggerà la stessa natura del fantastico, farà fallire la sintonizzazione dello spettatore nella percezione del valore «fiabesco» degli oggetti scenici.
Se la reviviscenza scenica e la sua chiave – il metodo delle azioni fisiche – sono totalmente applicabili a un qualsiasi spettacolo, persino a uno «teatrale», non significa che le tecniche del metodo, cioè le singole metodiche, non debbano essere sottoposte a variazioni sostanziali, a un determinato grado di astrazione dalla realtà caratteristico dello spettacolo in questione.
Sia la denominazione delle sezioni, sia la definizione dei compiti, sia gli accorgimenti per la messa in scena di quella che chiameremo pièce-fiaba saranno diversi da quelli usati per la messa in scena di una pièce di Cechov. Questo ne è un tipico esempio. Una volta K. S. Stanislavskij propose seriamente a S. Giacintova (1956) e a M. Uspenskaja che interpretavano degli elfi, di «volare» andandosi incontro. È ovvio, gli attori non poterono eseguire alla lettera l’ordine di Stanislavskij. Ma una simile definizione del compito trasmise ai movimenti delle attrici la leggerezza necessaria, straordinariamente consona al modo di «vivere» degli elfi. Questo piccolo episodio conferma una volta di più che la stabilità e la versatilità dei principi fondamentali di Stanislavskij presuppongono un’infinita varietà delle singole tecniche metodologiche, la loro flessibilità, il loro sviluppo in rapporto ad ogni caso concreto.
In questo modo, l’astrazione artistica dalla realtà, la convenzione teatrale non respingono l’arte della reviviscenza scenica ma trovano in essa lo strumento mediante il quale una sintesi artistica di qualsiasi livello conserverà tutta la forza del suo influsso emotivo.
Il metodo delle azioni fisiche di K. S. Stanislavskij si basa sulle leggi oggettive dell’attività cerebrale e sulle leggi oggettive della creazione scenica. Non è un’«invenzione» di Stanislavskij ma sintetizza l’esperienza pratica di una determinata fase di sviluppo dell’arte teatrale. Qualsiasi sistema di preparazione professionale di un attore del teatro realistico utilizzerà inevitabilmente gli elementi del metodo, indipendentemente da ciò, si riconoscerà  o non si riconoscerà in questa o quella personalità teatrale.
Il metodo delle azioni fisiche può essere sviluppato, perfezionato, completato, modificato. Ma non lo si può «confutare» o «rigettare», come non si può respingere il ricorso alla Tavola di Mendeleev nella chimica o al principio del riflesso condizionato nella fisiologia dell’attività nervosa superiore. Rivelandosi la realizzazione più importante dell’arte realistica, il metodo di Stanislavskij è di eccezionale interesse per i neurofisiologi moderni. Un’analisi psicologica approfondita delle tecniche elaborate da K. S. Stanislavskij agevolerà lo studio dei meccanismi delle reazioni emotive dell’uomo, la corretta valutazione del problema della «spontaneità» e delle questioni relative alla regolazione corticale delle funzioni vegetative. Dagli straordinari espedienti di un grande artista alla conoscenza dei meccanismi neurofisiologici, alla loro considerazione dal punto di vista della teoria generale della regolazione e, infine, alle «equazioni matematiche delle emozioni» – questo il cammino che si apre davanti ai ricercatori d’oggi.
Il metodo di Stanislavskij indica vie concrete per il potenziamento degli influssi regolatori della corteccia dei grandi emisferi cerebrali sulla sfera vegetativa dell’organismo, compresi gli influssi di natura imitativo – compensativa. A proposito, questa domanda neanche si pone nei lavori di fisiologia cortico – temporale per i quali è tipica la deduzione analitica delle componenti vegetative da generali atti meccanici.
Alla luce delle idee e dei risultati pratici di K. S. Stanislavskij, il cammino attraverso il «cardine motore» dei riflessi condizionati e non condizionati è, per ora, l’unica via a noi nota di intervento involontario nello svolgimento di processi vegetativi. Lo studio del metodo delle azioni fisiche può rivelarsi utile per la profilassi dell’effetto dannoso di emozioni negative, particolarmente in soggetti affetti da malattie del sistema cardiovascolare, da ulcera gastrica e da qualche altra forma della cosiddetta «patologia cortico-temporale».
La ricerca sperimentale della reviviscenza scenica ci avvicina alla conoscenza dei meccanismi degli stati nevrotici, mentre il metodo delle azioni fisiche è davvero in grado di arricchire l’arsenale della psicoterapia. Lo studio del metodo di Stanislavskij fa apprezzare in modo nuovo il ruolo motore nei meccanismi di ipnosi . Per sua natura lo stato ipnotico è di gran lunga più simile alla reviviscenza scenica che non al sonno naturale. Poiché le componenti motorie sono assolutamente vincolanti per la realizzazione della reviviscenza scenica, ci preme chiarire il ruolo degli elementi motori nel meccanismo della suggestione ipnotica.
La mente umana conserva numerosi esempi di come l’occhio acuto di un artista abbia notato nei fatti della realtà circostante nessi e relazioni che solo in seguito sono divenuti patrimonio della scienza. Le basi matematiche delle proporzioni nel corpo umano e nelle opere degli scultori e degli architetti dell’antica Grecia, l’intuizione di H. de Balzac sulla circolazione nel sangue di particolari sostanze sinergiche (ormoni), le leggi della percezione del suono e del colore sfruttate empiricamente in musica e in pittura ne sono una conferma convincente. Non ci troviamo forse sulla soglia di un’epoca in cui la scienza e l’arte, sempre più spesso, congiungono volutamente i loro sforzi nella grande opera di utilizzazione di una Natura inesauribile?