Deep Transition (recensione Sergio Spina)

DEEP TRANSITION
Di Gabriele Pedone e Ervis Eshja

Raccontare: compito impegnativo quant’altri mai.
Raccontare un paese, paese nuovo, paese novità, paese sorpresa di cui le cronache “orientate” dei mille gazzettieri interessati (interessanti quasi mai, pennivendoli quanti sono al servizio del notizionismo omnicomprensivo ) ci hanno spesso presentato un ritratto miserevole e parziale.
Raccontare il volto, l’atmosfera, il puzzo di sudore della gente che vive e che deve muovere il culo per vivere e sopravvivere: compito immane, da far tremare le vene, da far bruciare gli occhi nello sforzo di osservare una realtà immaginata, forse, appresa capita…carpita certamente no, o meglio certamente non ancora, non a quel primo sguardo ansioso che allo sbarco non riesce ad abbracciare tutto il visibile, il godibile il conoscibile e che vorrebbe invece tutto conoscere, godere, immagazzinare . Terra terra! grida, quasi fosse la Itaca Itaca! del viaggiatore favoleggiato, Itaca moderna alla quale accostarsi con rispetto prudente attenti a cogliere le intime sfumature di un ambiente così simile, vicino al nostro da farci credere, a un primo acchito, di aver raggiunto la ritrovata Iapigia che avevamo lasciato tempo fa a pochi chilometri di mare.

Raccontare senza lasciarsi prendere dalla frenesia delle immagini inconsuete e pure già previste dentro di noi che ce le portiamo dietro dall’infanzia e dai ricordi del vivere quotidiano.
Raccontare con immensa pazienza, con calma, con grande rispetto delle immagini che vorrebbero probabilmente rovinarci addosso con la loro bellezza rutilante, che vorrebbero sommergerci di suoni, di colori, di domande inespresse, di risposte inadeguate consapevoli di non poter spiegare come quando perchè successe quello che non si attendeva, accadde ciò che doveva accadere, la speranza prese il sopravvento sulla banalità del vivere quotidiano, la frenesia si impadronì del consueto andazzo dei gesti consueti, dei fatti risaputi, dei riti ripetuti.
Raccontare un paese piccolo e pure immenso di realtà vissute con una grande voglia di raccontarsi.
Immagini bloccate, abbacinate di luce e di silenzi, immagini ferme, attente, desiderose di mostrare quello che c’è dentro il paesaggio, dietro l’inquadratura, sui volti , negli occhi e aldilà dei sorrisi.
Trovare una tale consapevolezza in chi si affaccia da così poco tempo sul terrorizzante baratro del racconto per immagini è, a dir poco, straordinario.
E fa bene al cuore.
SERGIO SPINA