La poesia nella poesia

Di Luigi A. Santoro

Due anni fa moriva chi era già morto. O chi non era mai nato. Mi piace immaginare il sommo Bene mentre attizza le fiamme dell’inferno spargendo a folate versi del sommo Dante. O mentre, con passaporto autenticamente falso, fa danzare sulla musica delle terzine dell’esule angeli e santi del Paradiso. Il Purgatorio, no!. E’ un posto infrequentabile, regno di funzionari e mezzi busti, gente senza arte né parte. I figli di Mnemosine (la memoria) ricominciano dall’ultimo spettacolo. Quello nei fossati del castello di Otranto col “Paganini del contrabbasso”, Fernando Grillo.
I figli di Lete (l’oblio) versano fiumi di silenzio. Due anni? Morto appena da due anni! E debbo io richiamarlo alla memoria? E per cosa, poi ? Prima ancora che si consumassero quelle stesse scarpe con cui seguimmo il suo cadavere e i funerali con le ceneri sparse al vento largo dello scirocco otrantino abbiamo seguito cortei di delibere in bianco. Stesse scarpe e sguardi vaghi. E abbiamo giornate brevi colme d’appuntamenti importantissimi. Lui, il sommo Bene non può esigere il rispetto degli impegni; può solo sussurrare che in tanti lavorano per farne un pacco di silenzio e rendere il Salento più povero di memorie.
Ricominciamo dai fossati e dal tuo ritorno. L’avevi promesso: “Forse vi ho raccontato poche cose. E’ quanto m’è riuscito immaginare. Ma la vita che conta non è appunto proprio quanto ci manca? […] Solo è chi manca, e perciò ritorna.”. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che le ‘poche cose’ che ci ha raccontato avevano a che fare con un ‘altro’ modo di ‘leggere’ i libri dell’infanzia dal Pinocchio di Collodi al Don Chisciotte di Cervantes. Ci ha portati a visitare gl’incroci del nostro pensiero. A scorrere oggi i titoli delle sue opere si rimane colpiti dalla varietà dei temi e delle forme e da alcune persistenze ossessive: spettacoli teatrali, televisivi e radiofonici, saggi, testi narrativi e poetici, dischi, films; Camus, Collodi, Dante, Stevenson, Lewis, Prevost, Jarry, Majakowskij, Cervantes, Byron, Marlowe, D’Annunzio, Campana, De Musset, Manzoni, Leopardi… e Shakespeare e Laforgue. Lo abbiamo detto e lo riscriviamo, Carmelo Bene ha devastato il teatro del ‘900. Al suo passaggio il Teatro si è trasformato in un cumulo di macerie, ma disponibili a farsi materia di nuovi mondi. L’intreccio ridotto a brandelli, i personaggi svuotati e deformati, il dialogo prosciugato in monologo, il verosimile collassato nel grottesco, la scena, il trucco, i costumi, la musica, le luci risucchiati in un buco nero e sottoposti a torsioni insopportabili. Tutto l’armamentario messo a punto in secoli e secoli di scritture, pitture, composizioni, dopo il Big Bang che possiamo intravedere al di là del teatro greco e dei riti arcaici, ributtato nella fornace creatrice. Ma pure il buco nero che ingoia pianeti, stelle e galassie risputa, forse, da qualche altra parte nuovi pianeti e stelle e galassie. Davanti ad ogni spettacolo di Carmelo Bene si aveva la sensazione di toccare il massimo di entropia, l’universo raggelato nella morte termica e, contemporaneamente, il momento dell’esplosione. “Il teatro (non il suo doppio equivoco) – ha scritto Carmelo Bene nel ’90 – è indisciplina senza storia, e perciò precluso non solo alle lusinghe estetiche <<interdisciplinari>>, ma per di più amputato del soggetto, è rifiuto automatico dell’interventismo formale del tragico, della poesia, dell’Arte in genere: categorie dannate ai codici, allo <<stile>> dell’oggettività <<squalificata>>, e, perciò, formule asservite alla produzione dell’intrattenimento industriale; decorative consolazioni del soggetto riconfermato e trastullato nella sua incorreggibile convinzione d’esser-ci. <<Un>> teatro informe, in che sovrano è il disagio dell’azione, e il dire è quel di fuori-dall’interno masticato e risputato (a quel di fuori restituito) è l’esclusione dello spettatore che non sia l’abbandono…”. Quelle poche cose che ci ha raccontato e le molte, innumerevoli che ci può ancora raccontare se, come gli abbiamo promesso dopo lo spettacolo nei fossati – se lo ricorda, vero, il Presidente Fitto? – lo avremmo richiamato per costruire l’Immemoriale.