Carmelo Bene: l’attore quantico, ovvero La Poesia nella Poesia.

 

di L. A. Santoro

 

L’idea tremolante apparve una sera che si era lontani dal lippo appiccicoso e maleodorante delle lumaches che strisciano nella melma degli uffici. Sulle scrivanie da qualche tempo furono issate bandiere del marketing territoriale. Ovvero: tutto si vende, bellezza! A prezzi stracciati. Altro che ‘turismo culturale’ con menu di pizziche e sagre! La Maria Luisa Bene aveva saettato:

–   nel Salento azzoppato, e dunque obbligato a volare, come diceva Carmelo, in ginocchio dovrebbero entrare i turisti, a mani giunte e sguardo implorante, come nei pellegrinaggi a San Rocco o a San Donato!

S’era rifugiato lì qualche barlume di sacro. Ginocchia screpolate e rigagnoli di pianto.

Sul balcone della casa dei Bene a Santa Cesarea che affaccia sui capricci del Canale d’Otranto, ché i turisti non avevano ancora riempito tutti gl’interstizi della costa.

Maria Luisa, Mimmo, Lina, Beatrice e io, sul balcone a spiare la luna, tentati dall’aneddotica sulla volgarità degli abusi edilizi perpetrati ai danni di paesaggi indifesi. E come possiamo chiamare quelli verso persone e memorie indifese? Le ultime volontà del Genio disperse fra ghirigori d’irresponsabilità politica e ridicole brame ereditarie accortamente seminate su carte bollate. Se il morto è indigesto mangeremo i relitti dell’opera sua. Per risarcirlo del danno ricordiamolo insieme. Commemoriamolooo.

E se invece lo tenessimo per vivo e facessimo festa per la sua nascita?

 

Scarcagnulu

 

‘Nu scarcagnulu di paura – nel Salento anche gli sbuffi di vento prendono a volte sembianze d’ometti buffi – fece tintinnare i bicchieri, saltellò più fiate sugli scogli e volazzò verso il mare. Sull’onde la cuffietta rossa del folletto delle favole antiche cullò risatine stridule per qualche istante. Poi volle affondare.

Fare Omaggio al morto mai nato mai morto nel primo dì d’un altro settembre in cui fu non nato: l’Omaggio però, tutto da depensare, per la sorella divenne sfumare più sigarette attraverso i bocchini regalo di Carla Tatò. Per gli altri, l’agonia del fare; la sospensione sull’orlo dell’orrore pel limaccioso cincischiare d’amministratori istupiditi dal gas del potere acquattati nelle viscere di sfondata Fondazione. Chi mai poté riuscire a depensare se già il pensare era scabbia o rogna?

Sogghignava Pagliara il Mimmo professore archeologo compagno d’avventure sulle colline d’(h)eros assediate da pandette e codicilli. Avevano promesso di diventare avvocati in ossequio al raffinato gusto bizantino ben conservato fra le pianure del Sud. Per l’archeologo raccontare del Carmelo giovane era come fare uno scavo su di un terreno voltato e rivoltato. I reperti più antichi disseminati in superficie, sul fondo frammenti di tastiera e un circuito stampato.

Depensare l’Omaggio, per me, era sfidare Giuseppe Desa idiota santo svolazzante in quel di Copertino in voli nell’impossibile. Carmelo Bene aveva realizzato una puntuale ricognizione sullo sfacelo del mondo e delle sue rappresentazioni. “ E’ la sera – aveva scritto al tempo d’Otello -, il tramonto del genere UMANO (che non ha sesso) dappoiché i demagoghi e gli scribi hanno ridotto i SESSI a due (da tre, quattro, cinque, sei (mila) ).”. La comunità, la polis, la società d’Occidente, dopo aver attraversato la primavera e l’estate, si erano impantanate in un autunno che non voleva finire. Forse per non lasciare il campo a quello che pareva l’ultimo inverno. Vittoria definitiva dell’entropia. Appena arrivati, avevo aperto a caso una cartella che conteneva versi scritti con calligrafia minuta e regolare:

 

Nell’anima il gelo!

 

Lenti fiocchi di neve,

cadono gli anni

a coprirci di bianco

il passato,

provocando illusorie

rinascite;

poiché sommerso

è il ricordo del danno!

Domani il sole

scioglierà le nevi

e le tegole rosse

dei tetti,

svestite,

piangeranno la fine

d’una mascherata

divina!

Nell’anima il gelo!

 

Vennero pensieri scomposti: per quanto avessi cercato, poco o nulla avevo trovato nel campo di chi studiava la società, le relazioni fra le persone, le opere dell’uomo. Ricognizioni analoghe a quelle di Carmelo si trovavano invece fra gli studiosi di scienza. Pensavo, per dire, al Prigogine de La fine delle certezze.

Il pensiero tornò, non interamente depensato, sotto spoglia del rifiuto della riproposizione d’una Lectura Dantis (con manichino?) in su d’un podio oltre l’alberi e palazzi o sul cestello d’una gru, con altoparlanti a penzolare da altre due più picciole laterali. Una ferraglia di croce ove inchiodare ancora la voce corrotta da innumerevoli tresche con Campana e Majakovskij, D’Annunzio e Manzoni, Shakespeare e Leopardi. O un muro bianco sul fondo di una sala o di una cava o d’una lenta pianura da riempire con aureolate madonne de’ turchi e veli di Salomè e sospiri d’Ofelie.

 

[…]

 

Il ‘dove’

Chissaddove. C’è una grande buca sulla costa adriatica, tra Sant’Andrea e San Foca, che era una grotta. La chiamano Grotta Poesia. In verità le buche sono due e due quindi le grotte. Gli autoctoni raccontano di Poesia Grande e Poesia Piccola. In una i turisti ci fanno il bagno d’estate.

Nell’altra il Mimmo Pagliara professore archeologo scoprì all’inizio degli anni Ottanta che le pareti ospitavano una ragnatela di graffiti e iscrizioni. Scoprì anche che tutto intorno c’erano resti di un insediamento medioevale che nascondeva altri insediamenti. Il più antico risaliva all’età del bronzo. Forse. Anche lui fu costretto a diventare quantico. Un archeologo quantico. Le particelle in cui s’era raggrumato il passato, nel futuro diventavano onde di probabilità. E pensare che per “gl’inimici del cosmo” quei grumi di passato erano solamente ninnoli da esporre sulle bancarelle dello sviluppo inviluppato.

Il ‘dove’ dell’Omaggio non poteva non essere nella grotta dove l’archeologo quantico aveva potuto osservare, non i graffiti o le iscrizioni, ma le onde di perturbazioni che risalivano e ri/discendevano i rigagnoli di tempo. Probabilmente il Neolitico si arrogava il diritto di presentarsi come sorgente e il secondo secolo avanti Cristo la foce, ma prima della sorgente non era legittimo immaginare reti di tortuosi meandri percorsi dalle gocce – segni? E dopo la foce le correnti di figure, parole e frasi non si erano forse insinuate nell’immane ventre del mare della comunicazione. Sguardi su sguardi, graffi su graffi, frasi su frasi. E muschio, e guano di colombi selvatici su graffi, parole e frasi. E lo sguardo dell’archeologo che innescava il gesto che guidava il getto d’acqua per asportare muschio e guano e incrostazioni non attivava ancora un altro treno di perturbazioni? Qualunque cosa fosse stato l’Omaggio doveva cadere lì, in quel mondo d’indeterminatezza dove galleggiavano rari frammenti di certezze. Deriva del senso. Sciabordio d’onde. Stridule grida d’uccelli. Riflessi. Contratti col dio Taotor. Forse, Ta – o – tor. Gocciolare fitto o lento a segnare il dormiveglia del tempo. Preghiere e voti di schiavi e di donne. Chi venne qui era venuto da vicino o da lontano, tanto tanto lontano? Perché scrisse o fece scrivere sui segni degli altri? Cnosso non è poi tanto lontana da qui e Manutaru ulula anche dal fondo di queste caverne. Derive dei sensi.

 

No, non stupirti

delle pagine audaci

che mente umana ha scritto:

sono ruderi. Al loro posto

un tempio sorgerà.

Disfida al cielo, e noi,

sacerdoti del futuro, le sue scale

saliremo a sacrificare il tempo,

nel giorno che vedrà

l’ultimo sole!

 

L’esistenza di un inizio (e di una fine) ci rassicura. Di più, ci fa sentire padroni del tempo. Ma come si può essere senza un inizio e una fine? Non si è. O si è nella vacuità di una frase che nega d’essere? Meglio accucciarsi all’ombra di una negazione. O forse basta rovesciare la freccia del tempo e portare la fine all’inizio e l’inizio alla fine. Risalire l’onda del tempo per perdersi nell’eternità o nell’attimo; l’onda del suono per diventare nodo di silenzio o sinfonia divina; l’onda della luce per affogare in un grumo d’oscurità o un mare di lampi.

– Leggi, Maria Luisa.

 Estasi

 

Ammirare incantato

l’avvenire

stellato di sogni,

potrò quando il biancore

mattutino cesserà

di deludermi;

e la notte

m’avvolgerà di luce,

senza che il cielo

si vesta di rosa;

io godrò la musica

del silenzio

e mi parrà svanire!

 

 Maria Luisa si spegneva nel volto, quella sera, e poi lentamente, verso dopo verso, si riaccendeva nel volto del fratello. Non la voce. La sua per trovare fili di disarmonica armonia doveva sciogliere nodi dolenti, strisciare su pareti d’oscure caverne, arrancare su scogli puntuti.

Leggi ancora… quella dove l’alba s’acceca nel tramonto.

 

………….…………..

E la favola comincia

Quando sta per finire

Come chi schiuda gli occhi in sul tramonto

 

Alla fine, l’inizio. Nuotavano le parole tra parabole di fumo accompagnate dal ticchettio del bocchino sul posacenere di cristallo. L’energia di Carmelo pareva dilapidarsi per intero tra quei versi. L’Omaggio s’agitava fra ascisse e ordinate sbilenche. Forse non voleva essere depensato.

 

pamphletCommenti disabilitati su Carmelo Bene: l’attore quantico, ovvero La Poesia nella Poesia.