VERSO LA SECONDA DOSE, IL RACCONTO DI UN INSEGNANTE. di A. Santoro

Oggi, mentre mi accingo a completare il mio ciclo vaccinale, ripenso a tutto questo tempo trascorso, dal primo giorno in cui questo virus è entrato nella vita mia e dei miei alunni.

Tra quarantene e paure, contagi e sanificiazioni ho visto i miei bimbi diventare ragazzi in una maniera che mai avrei pensato di dover vivere.

Ho preso una prima media, quando tutto ciò è iniziato.

Nella scuola media ti accorgi di un tempo di mezzo che spesso, come genitori, ci appare impalpabile: li vedi entrare che sono bambini spaventati e li saluti, tre anni dopo, che sono ragazzi “spicati”, direbbe mio nonno, una pianta che fiorisce improvvisamente.

Non abbiamo fatto in tempo a conoscerci che il mondo ci ha messo tra i denti questa parola: “pandemia”.
Ricordo l’imbarazzo, il timore, l’angoscia di dover spiegare a dei bambini, termini che si studiano più tardi: virus, infezione, lockdown, epidemia…

La scuola chiuse d’inverno senza darci il tempo di lamentarci per i soliti termosifoni mai abbastanza caldi, di organizzare alcuna gita, di piangere o gioire per la prima pagella di fine quadrimestre. 

Abbiamo abitato il tempo della consolazione quando una alunna ha scoperto sulla propria pelle i sintomi covid, il tempo dell’attesa per quel tampone cosi invadente, il tempo sospeso al risultato di un referto, l’isolamento intra familiare: porte chiuse sui propri cari, le snervanti quarantene.

Ogni rientro in classe, preceduto da immancabili (e francamente insopportabili) polemiche, immarcescibili lezioni di virologia, epidemiologia, sempre con il cuore gonfio di instabilità.

Quanto durerà? La vista di fessure di occhi, la costrizione da banco?

Abbiamo imparato a riconoscerci dagli sguardi, dimenticato la forma di orifizi orali silenziati dentro bavagli enormi: mascherine di Stato grandi come bandiere per avvolgere visini di fanciulli imberbi.

Sotto caschetti plastici abbiamo incapsulato le nostre lezioni, trasformandole in ancor più cupi echi cavernicoli. Eppure, abbiamo accettato la sgradevolezza del “ritorno in cuffia”, pur di mandare avanti un’idea di scuola.
Perché la scuola è prima di tutto un’idea, in questo paese: ognuno ha la sua.

Ma per noi, che siamo stati in classe anche in giorni vuoti, vuoti di alunni, vuoti di voci, abbiamo visto la scuola senza idee come logica risultanza vettoriale di tangenti divergenti: strattonata a destra e a manca da pensieri mal pensati. Misurando ogni centimetro di classi, mentre incollavamo bollini adesivi, linee e distanziamenti, abbiamo avuta la certezza empirica che si, le classi sono tanto piccole per inscatolarci 25-30 persone!

L’odore di ettolitri di disinfettante ha sostituito quello della macchinetta del caffè. L’impiccio di scatoloni da smistare ogni giorno, carichi di batuffolosi dispositivi di protezione individuale,  è diventata l’unica attività sportiva e le palestre, serrate, hanno ospitato archivi mastodontici, frettolosamente sgomberati dopo lustri di giacenza, per improvvisare nuove classi e nuovi banchi roteanti.

Il giorno della prima dosa di vaccino: la gioia pre trombotica, quando ancora non si parlava di seni venosi e lo smarrimento, allorquando, poche ore dopo, ci hanno comunicato che un lotto, il nostro ovviamente, era stato sequestrato e bloccato.

Ma questa pandemia è stata così, dall’inizio, come un grafico ridondante: picco e caduta continuativa e, come sulla spezzata, tra gli assi verticali ed orizzontali, noi ci siamo dimenati provando a non trascinare i ragazzi nel rally impazzito delle chiusure colorate.

Ho letto tonnellate di articoli di imbarazzanti commentatori di scuola, pedagoghi che ricorrevano a psicologi, improvvisare premature disamine epocali. 

I ragazzi, quelli veri, non ridotti a dati statistici, si sono presi burla di tutti loro. Crescendo loro malgrado. Li hanno chiamati “ragazzi interrotti” ma io, che li ho visti mutare, ho compreso il significato della parola più abusata della pandemia: resilienza. 

Mai interrotti! se mai un’interruzione c’è stata, questa è avvenuta tra noi adulti che avevamo il compito di creare ponti là dove, la crepa sociale, esistenziale si era fatta insostenibile.

Loro, come equilibristi, ci hanno sopportato, supportato, incoraggiato, compatito, consolato.

Questi piccoli funamboli hanno imparato un mucchio di cose tra un complemento oggetto e una similitudine, tutte cose che, la scuola, aveva dolosamente omesso per anni.

La nostra scuola è cresciuta! Ne ho conferma adesso che la guardo prima di voltarmi e andare a fare la seconda dose di vaccino. Ha una tecnologia degna di questo nome e un gruppo di umani molto più umani. 

Non so cosa ci riserva il futuro, per ora accogliete questo mio pretenzioso excursus, con magnanimità e beneficio di inventario.

Buon vaccino a tutti.