Storia dell’albero che non voleva essere tagliato. Omaggio a Caterina Durante di Alessandro Santoro

C’era una volta un maestoso albero.

Ben piantato in un fertile terreno del Sud Italia. In una terra abitata dai Messapi, visitata dai Greci e devastata dai romani. Quelli che arrivarono dopo: Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, tedeschi, americani…portarono tanto ma presero il doppio.

Gente Italica di prime maniere che amava spremerne le bacche per gli usi più disparati.

Ovidio lo chiamò oleastro e raccontò la favola di un pastore punito dalle ninfe che per la sua sfrontatezza fu fasciato di corteccia e trasformato in albero.

Viveva in questa contrada da cui era possibile vedere delle grotte che si perdevano nell’ombra di un grande bosco, tra l’ondeggiar di canne lievi. Qui dove abitava Pan semi-capro e poi, prima di lui, le ninfe. Dal succo delle bacche di quel pastore tramutato in albero- l’oleastro- si può avere un’idea di quale fosse il suo carattere. La sua lingua le ha rese amare. L’asprezza del linguaggio è passata nelle bacche.

C’era una volta, si diceva, e c’è ancora quell’ enorme albero di Ulivo.

Quando fosse stato piantato e da chi nessuno lo sapeva. Era molto vecchio e vecchio era sempre sembrato alla protagonista di questa storia: Caterina.

Vecchio era sembrato anche al padre di Caterina e così al padre di suo padre.

Caterina aveva sentito narrare storie di amori nati sotto quell’albero. Aveva udito di dita ricurve, di urla al cielo e di canti discordi che si accordavano nel rito della raccolta delle olive. Aveva letto su qualche vecchio libro di una donna trucidata perché aveva stracciato il cappuccio con cui, china al suolo, raccoglieva le olive.

Si era spezzata la schiena per svuotare il cappuccio decine e decine di volte al giorno fino a che il sole non era tramontato. La rabbia contro i padroni la versava tutta nelle strofe di tante canzoni. Una diceva

patrunu miu mo fazzo carotti

Quannu passi cu nci te stocchi.

Padrone mio ora faccio tanti buchi/ Quando passi ci cadi dentro e ti spezzi le gambe.

Poi, un giorno, osò unirsi allo sciopero proclamato al grido di “Morte al cappuccio, viva il paniere!”.

Le fu sottratta la giovinezza proprio sotto quell’albero. Il suo sangue aveva arrossato le foglie e dato un sapore ancor più aspro ai suoi frutti.

Caterina amava molto quell’albero.

Lo abbracciava spesso. Le rughe della corteccia sembrava fossero capaci di attraversare la sua pelle. Gli anni vissuti dall’albero attraversavano i pensieri di Caterina e si visualizzavano nitidi davanti agli occhi.

Tutti pensavano a Caterina come ad una giovane un po’ “particolare”. Sempre con la testa fra le nuvole. A cosa starà pensando Caterina? In molti ridacchiavano di lei: la giovane che abbraccia gli alberi!

Questo faceva Caterina quasi di mestiere: abbracciava gli alberi.

Li abbracciava. Ci stava un po’ con gli occhi socchiusi. Poi filava a scrivere una storia.

Scriveva racconti di alberi, d’incontri sotto gli alberi, di avvenimenti accaduti tra le fronde degli alberi, favole con gli alberi intorno agli alberi.

Caterina amava tutti gli alberi. Ma quel maestoso ulivo era decisamente il suo preferito.

Le ispirava decine, centinaia di storie.

Gli anni passavano e Caterina si accorse che le storie che raccontava erano storie realmente accadute.

E così Caterina cominciò a comporre la storia del maestoso albero di ulivo che regnava in mezzo a centinaia, migliaia di altri alberi. Un enorme bosco si estendeva a perdita d’occhio in tutte le direzioni. La terra era l’unica macchia rossastra in mezzo a tanto verde.

Come scrisse un poeta della sua generazione, Carmelo Bene:

“Ulivi in preghiera

tra tanto pensoso

dolorare di verde”.

Durante le carestie, le guerre, gli alberi servivano come legna da ardere lentamente per produrre carboni, li crauni, altri vennero tagliati per fare posto ad enormi piantagioni di tabacco. Poi giunse il cotone e così venne il momento dei cereali, delle grandi distese di padroni sempre più avidi e i contadini del posto facevano sempre la stessa cosa, da sempre: si spezzavano la schiena.

Si piegavano durante i raccolti, si piegavano alle nerbate, si piegavano ossequiosi al passaggio del sensale, si piegavano per il dolore di non riuscire più ad alzarsi.

Ad uno ad uno gli alberi sparirono.

Ma il maestoso albero d’ulivo era sempre lì al suo posto. E cresceva innervandosi intorno ad una corteccia divenuta sempre più dura, resistente.

Talmente dura che nessuno era più in grado di potarne i ramoscelli o avvicinarsi per raccoglierne le olive.

Chi ci aveva provato aveva ben presto desistito.

Scale scaraventate al cielo, seghe frantumate al primo tentativo di taglio. Schizzi di liquame oleoso e scherzi di ogni tipo.

Un giorno, ad esempio, un giovane viandante che aveva trovato riparo sotto il maestoso albero e che tentò di incidere alcune iniziali sulla sua corteccia fu visto sprofondare, letteralmente ingoiato dall’albero. Ritrovarono solo il coltellino del poveretto spezzato a terra.

Un giorno giunse la notizia che era finito il tempo degli alberi.

Era giunto il tempo del riscatto. Degli uomini che prendevano il controllo del territorio. E furono costruite case e vie e città e alberghi e parchi di divertimenti e gli alberi furono strappati alla terra e messi dentro grandi vasi e spediti al nord, al freddo a far bella mostra nelle ville dei ricchi divenuti sempre più ricchi.

Era venuto il tempo della modernità e delle macchine che sfrecciavano da ogni lato.

Un giorno un macchina si schiantò diritta in mezzo al nostro maestoso albero. Molte vite furono spezzate e le fronde divennero ancora più rosse.

Nessuno raccoglieva più le olive perché tutti compravano l’olio già bello e fatto. Olio di olive africane, mischiate a sansa spagnola, raffinato in grandi industrie dell’est Europa e rivenduto con il marchio Dop sui mercati di tutto il mondo.

Una mattina degli uomini arrivarono con le ruspe. Bisognava fare spazio ad una nuova strada a quattro corsie. Una strada per raggiungere il mare velocemente, una strada per i turisti, per le loro macchine, per i loro soldi.

Quell’albero doveva sparire una volta per tutte.

Caterina si oppose con tutte le sue forze. A Caterina non era rimasto granché per cui combattere.

Le sue storie non le comprava più nessuno perche tutti guardavano lo schermo televisivo, o quello del computer o, ancora più follemente si perdevano negli schermini dei cellulari, e la sua immaginazione si stava consumando insieme agli alberi sradicati.

La sua pelle si era innervata proprio come quella corteccia. I suoi capelli cresciuti a dismisura e le sue unghie come rami si contorcevano. Caterina stava diventando un albero e ad ogni tronco abbattuto era come se qualcosa morisse dentro di lei.

Quello di cui nessuno si rendeva conto è che tutti gli abitanti di quella terra erano come Caterina. Figli degli alberi. Avevano tradito i loro padri. E i padri dei loro padri.

Non si rendevano conto che ogni qualvolta acconsentivano all’abbattimento di un albero stavano segando la loro stessa vita.

In molti iniziarono ad ammalarsi. Morivano e cadevano come olive svuotate dalla mosca olearia.

Proprio questo accadeva alle persone. Nel bel mezzo della loro vita cadevano e marcivano per terra.

I medici trovarono mille nomi per quella che tutti consideravano una malattia.

Quando vennero a distruggere l’ultimo albero rimasto Caterina si fece un tutt’uno con il maestoso albero.

La ruspa cozzò più volte contro di loro senza riuscire a intaccarli minimamente. L’asfalto disteso in gran quantità fu divelto dalle radici.

Allora costruirono una grande rotatoria e di Caterina si persero le tracce.

Scomparve in una notte tra il Natale e Santo Stefano. Qualcuno dice che stesse lavorando ad una nuova storia.

Una storia che narrava della riconquista della terra. Di giovani uomini e donne che smettevano di costruire strade e riprendevano a piantare alberi. Nessuno ha mai letto quella storia perché Caterina non riuscì mai a scriverla.

Ancora oggi il maestoso albero è lì in mezzo alla rotatoria a ricordarci quel tempo in cui il mondo era foderato di piante e di alberi. Il maestoso albero che non voleva essere tagliato è sempre lì e, ogni volta che passo lo saluto: Ciao Caterina!