Il forno di tutti

Mio padre era fornaio.
Da dieci anni non lo è più.
Il forno c’è ancora.
Fu costruito nell’anno dei mondiali dell’82,
quando l’ultimo forno del paese chiuse.
A quel tempo,
anche a Sud,
il pane si poteva
non fare più in casa.
Si poteva acquistare
il nuovo pane elettrico,
fatto con farine lontane
e lieviti industriali.
Mia madre ha sempre fatto il pane in casa,
da quando a sei anni, sua madre,
la spinse fino alla madia,
con un piccolo sgabello,
per aiutare ad impastare
farina, acqua calda con sale sciolto
e il lievito madre.
Al mio paese,
il lievito si è sempre chiamato
“lu criscituru” che,
in poche ore,
mentre si riposavano braccia e gambe,
avrebbe trasmesso la sua vitalità
alle fibre del grano.
Crescendo e liberando
un profumo unico.
Si è vero.
Il lievito ha l’odore dei neonati.
L’alba è ormai alle porte,
e se è d’inverno si attende
qualche momento in più,
ma se è d’estate
è meglio anticipare,
perchè al forno,
il fornaio ha già
cominciato il suo quotidiano
rito del fuoco.
D’estate,
il volto del fornaio
è simile allo scoglio
con il sale seccato
dal sole.
Il calore della bocca
del forno, asciuga
il sudore nei pori
della pelle,
e l’odore di origano selvatico
si mischia al muschio
delle cataste
in attesa di ardere.
Qui le cataste sono d’ulivo.
Cataste di fascine
di rami vecchi e giovani,
secchi e freschi,
cavalcate ad una ad una
per domare l’intima incertezza
della crescita di un’ulivo.
D’estate, sulle gambe
del fornaio si vedono
le rosse cicatrici di qualche
astuto ramo scappato
al cappio che lo condurrà
ad essere partecipe,
seppur come carbone ardente,
al miracolo della cottura
del pane.
Appena costruito,
un giovane forno
non è ancora pronto
per cuocere il pane.
Deve prima cuocere se stesso.
Il forno di mio padre,
quando ancora non era,
assomigliava alle illustrazioni
dei sussidiari elementari
che raccontavano l’arte
babilonese
di costruire mattoni
refrattari al fuoco
a partire da paglia e terra.
Tre mesi ci sono voluti
a suon di tralci di vite,
sottratti a Sant’Antonio
per benedire la cupola
parlante del nuovo formo.
Nel forno di mio padre
non c’è mai stato un termometro,
perchè il momento giusto
per infornare il pane
lo dice il colore
del calore dei mattoni.
All’orologio non si può rinunciare.
Ogni quarto d’ora
l’orologio del paese
batte a suon di campane
il tempo di tutti.
D’inverno il lievito
impiega più tempo a gonfiare la massa,
mentre d’estate
il vento di scirocco, a volte,
abbassa la massa al punto che,
neppure l’altissima temperatura
riesce a farla rinvigorire.
Soletta, si dice.
Il lievito anestetizzato dall’afa,
quando cuoce, secca.
Altro pane allora.
Altra procedura.
Altri tempi.
Stesso lievito.
Il morbido pane
si fa dura frisella.
Pane cotto,
tagliato a metà
e ricotto a fuoco lento.
Durerà per mesi
nelle fresche capase
che profumano…
che profumano…
di frise nelle capase.
Non v’è paragone.
O lo hai sentito,
oppure devi affinare
il naso e accostare
lontane spezie
per accendere
un barlume di speranza
sulla possibilità
di bagnare l’ultima frisa
posata sul fondo della capasa
in una corona di pezzettini
di altre frise,
forse rimaste
dall’anno passato,
ma ancora croccanti.
La frisa è pane
che sa di essere pane vivo
per lungo tempo.
Il pane morbido è la quotidianità.
La ripetizione, quasi, perpetua del sublime.
Il pane morbido, caldo,
profumato, con crosta croccante,
servito dalla bocca del forno
è gesto di rapidissima contemplazione.
Tra le mani
quel pezzo di massa
arde come un tizzone.
Si prende e si lascia subito
cadere per ascoltare le sue vibrazioni.
Se sono troppo basse
allora c’è ancora
acqua in pasta.
Se sono troppo alte,
non sono mai troppo alte.
Il suono del pane cotto
è basso e profondo
come una goccia d’acqua
in una grande grotta.
La crosta,
invece,
come i sonagli
del tamburello,
innalza i toni
del piacere
del pane.
Questo è l’istante
quando tutte le voci
del forno tacciono.
Solo saliva, olio e pane caldo.
Ci serve felliniana memoria
per evocare tutte le voci
del forno, mescolate
a corpi di madri,
nonne, zitelle
e promesse.
La campana del mattino
suona poco prima dell’alba,
è tempo per gli uomini di casa
di caricare le madie sui carretti
facendo attenzione
acchè il pane non veda mai le stelle.
Altrimenti, soletta.
D’inverno è piacevole
l’inosservato spogliarello
delle braccia pronte
a rimassare la massa
per prepararla,
pezzo dopo pezzo,
alla cottura.
D’estate lo spogliarello
diventa commedia dell’arte,
nel gioco malizioso
dell’attesa del primo assaggio.
Ci vuole circa un’ora e mezza
per cuocere un pezzo di pane
allo zenith del piacere.
Un tempo eterno
quando si parla di morte,
un tempo imprudente
quando si parla di sorte,
un tempo invadente
quando si parla di consorte,
un tempo malandrino
quanto si parla di corte,
un tempo che brucia
quando non si parla.
Brucia come la bocca del forno.
Brucia come la base del forno
fatta di chianche di pietra leccese,
pronta a cuocere i pezzi
preparati su lunghe tavole
di pino di Svezia.
Ad uno ad uno entrano
allungati nella fornace
su una pala di noce.
La farina a contatto
con le altissime temperature
carbonizza immediatamente
intorno al pezzo adagiato
al suo posto,
tra tutti gli altri.
Quelli più vicini alla brace
ricevono un trattamento
speciale che porterà
alla crosta più scura,
gli altri doreranno,
come i calici e le cornici
delle chiese.
Il giorno del pane
si saltava la messa del mattino,
generalmente.
Alcune donne riuscivano
ad incastrare il tempo dell’eucarestia
con il tempo della lievitazione,
per andare, dopo la benedizione,
ad infornare il pane
già portato dagli uomini.
Sacro e profano.
Al forno, per infornare,
cadono tutti i veli.
Quando l’ultimo pezzo
ha trovato il suo posto
la bocca del forno
si chiude
e quella delle infornatrici
si apre come le orecchie
del fornaio.
Per essere il forno di tutti
deve anche essere il forno di nessuno.
Il forno non era neppure di mio padre.
Mio padre era del forno.
E il forno fu chiaro sin dall’inizio.
Qui radio e televisione non entra.
E se entrasse cosa succederebbe?
Il forno di tutti deve dare voce a tutti.
Se accendi la radio o la televisione,
oltre che a bruciare spesso il pane,
ti prendi, tu fornaio, la responsabilità
di spegnere la voce della gente del pane.
Quelle voci sono ormai echi lontani.
Le promesse sono diventate
madri, le madri sono diventate nonne
e le nonne sono tornate cenere.
Cenere che il forno produceva ogni giorno.
Cenere che tornava a difendere
le radici dei secolari ulivi
ma anche quelle delle giovani rose,
dei vecchi capperi e della menta.
Cenere che non si smaltiva,
ma si integrava nel ciclo della vita.
L’elettricità della radio e della televisione,
produceva cenere, visibile altrove.
La cenere dell’elettricità
si è sparsa sui capi dei giovani
sposi senza alcuna resistenza
dei novelli nonni
che brindavano alla coppa del mondo
di Spagna Ottantadue.
Le nuove nonne potevano
durare vent’anni, quanto
bastava per mandare i figli a scuola,
calcolava sibillinamente
mio padre.
Il ventennio di fine millennio
vissuto dal forno di un paesino
di appena un chilometro di raggio
ha visto trasformare
il carretto in motocarro,
le campane in orologi al quarzo,
i sogni in investimenti economici,
il pane caldo in pane surgelato,
venduto con l’immagine
del pane caldo.
Il forno era come
una chiesa laica,
dove durante
il rituale del pane,
radio e televisione
sono spente.
O forse no?
Le storie della gente del forno
si impastano con
le storie delle storie
della gente della televisione.
Gente lontana,
come le telenovelas argentine,
gente vicina
come i telegiornali regionali.
Il forno espande
lo spettro delle storie
verso tutto l’universo.
I figli mandati
a scuola lontano,
quando tornavano,
andavano al forno
per godere di molliche
di recondita armonia.
Saliva, olio e pane caldo
non può più essere sublime
al figlio educato a fondere
la saliva con la porno-lingua,
l’olio con il supermercato,
e il pane caldo con le parole “pane caldo”.
Con l’arrivo del nuovo millennio
il forno si è svuotato delle voci
della gente del pane.
Le forze del fornaio venivano
meno come le richieste di cuocere
il pane fatto in casa.
Prima di chiudere,
per quasi due anni,
pur di accontentare
gli ultimi sguardi canuti,
che si presentavano
una volta ogni due mesi,
come sempre d’altronde,
il fuoco ardeva senza
la sua sua missione di cottura.
Il fornaio, il fuoco
e il silenzio rumoroso dell’assenza.
Il forno per fare il pane buono
non deve mai raffreddarsi.
E così, mio padre
ogni giorno andava
a nutrire la fornace,
per tenerla pronta
alla prossima cottura.
Quando le richieste di cottura
diventarono due al mese,
ci fu un momento in cui
si organizzò l’ultima infornata.
All’ultima infornata
si presentarono in fila
tutti gli spiriti di un tempo
ormai passato,
ma pronto a lievitare ancora
per tutti.
La gente del pane
ha portato alla bocca del forno
pane morbido di ogni forma e dimensione,
friselle, frisellone e friselline, taralli,
panetti, piscialette, uliate, lune,
paste, pastarelle, pasterelle,
biscotti lunghi, biscotti tondi,
biscotti corti, con lo zucchero,
senza zucchero, con l’uovo,
senza l’uovo, con l’ammoniaca,
senza l’ammoniaca, con il lievito,
con poco lievito, con la farina di grano proprio,
con la farina comprata al mulino,
con la farina del vicino,
con la farina del lontano.
La gente del pane
era come il pane che cuoceva,
almeno nell’essenza,
perchè nell’apparenza,
intorno al grano lievitato
il forno si riempiva
di pomodori, peperoni,
cipolle e melanzane
per la fresca insalata
della sera d’estate.
Di patate, lepre, cinghiale,
pecora o coniglio,
o solo patate e rosmarino
in qualsiasi
momento dell’anno,
insieme a parmigiana,
lasagna, gattò con soresina e prosciutto,
polpette, polpettoni, calzoni, calzoncini,
pizzette, pizze, pizzi
e pezzi di pane.
Pezzi di pane,
erano,
la gente
del forno di tutti.