MIA NONNA. di Luigi A. Santoro

Mia nonna era anche mio nonno. Di quell’uomo che si materializzava solamente una volta l’anno, la notte che precedeva il giorno dei defunti, aveva occupato il posto: nel letto, in campagna, in chiesa, nel gruppo di persone che si riuniva nel cortile di casa sua le sere d’estate. Usava la bicicletta di mio nonno, la sua falce, i suoi ditali di canna, le sue zappe. Anche la voce cupa che le usciva quando doveva rimproverarci era quella di mio nonno. 

   Ma lei un mestiere suo lo aveva. Batteva la bambagia. Mi metteva a sedere su di uno scranno di legno vicino al camino e si concentrava nel suo lavoro. Staccava l’archetto appeso al muro, controllava la tensione della corda, prendeva con la sinistra un bastoncino di legno che aveva in cima un piccolo rigonfiamento e cominciava a colpire la corda che, vibrando, trasformava i compatti batuffoli di cotone in soffice ovatta. Al centro del tavolo quadrato c’era un buco di pochi centimetri; il mio compito era quello di spingere la polvere che rimaneva sul tavolo dentro quel buco e, ogni tanto, andare a svuotare nell’orto la cardarina dove si raccoglieva la polvere sistemata sotto il tavolo. 

    Anche se arrivava qualcuno, mia nonna non lasciava mai di battere, parlava e batteva la bambagia. Mi spiegò che non poteva perdere il tempo. Se perdeva il ritmo, le si gonfiava il braccio che reggeva l’arco, il respiro si spezzava, le gambe s’irrigidivano. Come quando si pigia l’uva, mi spiegava, non si devono fare passi tutti uguali nel tino, ma bisogna poggiare il piede ogni quattro-otto passi.

– Quando si poggia a quattro e quando a otto?

– Te lo dicono gli acini e i graspi e la gente che canta.

Quando batteva la bambagia lei non cantava; cioè io non la sentivo cantare, ma sicuramente si aiutava a mantenere il tempo con un canto silenzioso.

   Mia nonna, ora lo so per certo, abitava la luce e il riso. Andava ai funerali solo dopo che il morto era stato portato via. Quando si cominciava a mangiare e bere. Il suo arrivo era il segnale che si poteva ricominciare a ridere. Esordiva rivolgendosi ai parenti del morto:

– <<Dice lu Ntoni (il morto) ca sta bu spetta alli Mercurieddhi (il cimitero) e se me dati nu bicchieri te mieru bu ticu le restu (e se mi offrite un bicchiere di vino vi racconto il resto)>>.

La masciara la chiamava per suonare alle tarantate scure. A quelle che si perdevano nella luce che acceca non andava bene il suo modo di fare e il modo di suonare il tamburello. I suoi modi di brusca bonarietà ricordavano quelli dell’ostetrica di paese. Il suo tamburello rideva. Dicevano fosse la più grande piglianculo del paese. Le sue burle riempivano i racconti delle sere d’estate. Il suo capolavoro rischiò di sfociare in tragedia. Per questo ne parlavano solo in quelle ronde dove non ci stavano né vittime di quello scherzo , né parenti, anche lontani, di quelle. Ed erano proprio tanti perché la ciurma impegnata nella raccolta delle olive nelle campagne nei pressi del cimitero era composta di 21 donne e tre uomini. Le donne si disponevano sette per ogni albero. Quattro raccoglievano le olive cadute fra il tronco e il cigliaru, tre quelle sparse fra il cigliaru e i vuoti tra un albero e l’altro. I tre uomini, uno per ogni albero battevano con una canna le cime più alte per far cadere le olive.

Il ricordo del ballo della mamma di Enzo cominciò ad affacciarsi dalla piega della mia memoria una settimana dopo la notte che avevo trascorso nella cappella di San Paolo a Galatina insieme ad alcune tarantate e ai loro parenti.

  Era verso la fine di maggio o i primissimi giorni di giugno. Faceva molto caldo. La masciara  aveva cominciato a trafficare in casa della mamma di Enzo fin dalla mattina. Ero stato informato di questo indirettamente da mia nonna. E la cosa mi era sembrata molto strana. Tutte le altre volte che avevo chiesto a mia nonna di accompagnarla da una tarantata mi aveva risposto in modo brusco:

–  Nu suntu fatti toi !  (Non sono fatti che ti riguardano!)

Questa volta, invece, io non le avevo chiesto nulla; aveva preso lei l’iniziativa:

– Questa sera portiamo i suoni dalla Donatuccia. Se finisci presto i compiti puoi venire con me.

Cominciai a capire quando mi disse d’invitare anche quattro miei amici. Eravamo tutti presenti quando Enzo era caduto dall’albero nelle Lacquare ed era stato inghiottito dalla melma. Questa volta erano fatti che mi riguardavano.

   Lo stanzone era pieno di gente assiepata fra una fila di sedie impagliate e i muri. Il pagliericcio era stato sistemato  contro il muro di fronte alla porta. Entrò prima mia nonna. Noi ragazzi eravamo dietro di lei. Dietro di noi gli altri due musici: uno col violino, un altro con l’organetto. I musici si disposero intorno al letto, mentre a noi furono indicate cinque sedie vuote. Il pavimento era coperto da un lenzuolo bianco. Al soffitto era appesa una grossa corda e alla corda era stato legato un grosso ramo di noce. Appena discosto dal letto era stato sistemato un tavolino coperto da una tovaglia a quadri. Uno specchio, appeso al muro, era stato coperto da un velo nero. Sul lenzuolo erano sparse diverse immagini sacre, molte madonne e un ventaglio con l’effige di San Paolo.

   La masciara aveva parlato a lungo col violinista e poi era sparita dietro la tenda che copriva la porta della cucina. Ora il violinista si era avvicinato alla testa del letto, si era piegato verso la tarantata e aveva cominciato a provare i suoni. Gli spettatori seguivano i tentativi nel più assoluto silenzio. Dopo una mezz’ora abbondante, però, cominciò ad avvertirsi chiaramente un certo disagio. Il violinista sudava copiosamente e si voltava di continuo verso gli altri musici come per chiedere aiuto. Anche gli sguardi degli spettatori s’incrociavano alla ricerca di risposte. Donatuccia non aveva mosso un capello, né aveva emesso un pur flebile lamento. Anche mia nonna non riusciva a mascherare la preoccupazione. 

Si cominciò a sentire qualche brusio; una alle mie spalle sussurrò:

– Quella tiene l’anima morta. Forse serve la bracera(il braciere).

Da dietro la tenda, come evocata da quelle parole, ricomparve la masciara con un braciere in mano.

Lo posò ai piedi del letto e, dopo essersi accovacciata, cominciò a soffiare come se volesse riattizzare il fuoco. In realtà si sollevavano piccole nuvole di cenere che ricadevano, parte sui bordi del braciere, parte sul lenzuolo. Il brusio della gente era cessato e c’era di nuovo molta tensione. Quando, quasi sul fondo del braciere, comparve un tizzone acceso, la stessa vecchietta che stava dietro di me sussurrò:

– Hai visto che teneva l’anima sotto la cenere? Ora ricomincia a respirare.

Invece non accadde proprio nulla. La donna rimaneva immobile, esattamente nella stessa posizione in cui stava quando io ero entrato.

   Anche la masciara si era accorta che era assolutamente inutile continuare a soffiare su quel tizzone. Alzò più volte le spalle, come a chiedere scusa ai presenti, e si ritirò dietro la tenda. Fu a quel punto che mia nonna venne verso di me, mi strappò la giacchetta che avevo sulle gambe e cominciò a lacerarla seguendo, alla grossa, le cuciture. Ero letteralmente impietrito. Le aveva dato di volta il cervello? In fondo che cosa c’entrava lei se la cura non funzionava? Era, o no, solamente uno dei suonatori al servizio della masciara

   Dopo la morte del figlio, il mio amico Enzo, nelle Lacquare del Fondone la Donatuccia era vissuta per mesi vagando per le campagne. Quelli che l’avevano vista raccontavano che bestemmiava come un turco e sputava contro le immagini sacre dipinte sui muri delle chiesette di campagna. Nessuno sapeva dove andasse a dormire e come facesse a procurarsi da mangiare. Forse aveva bisogno di un dottore, e di quelli bravi. 

   Mia nonna, intanto, aveva finito di distruggere la mia povera giacca. Pensai che fosse veramente impazzita quando mi arrivò addosso e mi agguantò per il mento costringendomi a lasciare la sedia:

– Sentimi sano, tieni questi zinzuli (stracci) e, quando ti faccio segno con la testa, li butti all’aria in modo che cadano addosso alla Donatuccia; poi te ne torni di corsa al tuo posto.

   Intuivo che cosa aveva intenzione di fare. Fece allontanare gli altri musici e si sistemò dall’altra parte del letto. Divaricò le gambe e si piegò leggermente sulle ginocchia, quindi cominciò a far frusciare i sonagli del tamburello spostandolo con un gesto ampio e continuo alla sua destra e alla sua sinistra. Nella parte centrale del movimento il tamburello sfiorava i capelli di Donatuccia. Una, due, tre, dieci volte. Il tamburello frusciava come il mare che accarezza gli scogli. La tarantata spalancò gli occhi. Mia nonna mi fece il segnale con la testa e, contemporanemente, sbattè il tamburello contro il palmo della mano sinistra. Fu uno scoppio tremendo. Io lanciai in aria gli stracci della mia giacca. 

Così era morto il marito di Donatuccia, dilaniato da una bomba mentre pescava di frodo.    

La donna saltò dal letto e ricadde sulle ginocchia, mentre emetteva un urlo che non aveva niente di umano. Mi precipitai verso la mia sedia. Donatuccia ora raccoglieva i brandelli di stoffa. Erano movimenti malati. Il braccio destro faceva uno scatto in avanti, in direzione di un pezzo di stoffa, poi inarcava le dita, come fossero le zampe di un ragno, girava la testa di lato – aveva paura di guardare? – e, lentamente, ma sempre a scatti, avvicinava la mano (ragno?) alla stoffa. Quando li ebbe raccolti tutti se li strinse al petto e s’immobilizzò. Gli occhi sbarrati, lo sguardo perduto nel nulla.

Il violinista capì che toccava a lui. Si avvicinò alla donna, piegandosi un poco sul ginocchio sinistro, e cominciò a versarle addosso un lamento straziante. 

    Lei allora si scuote e dondola pian piano la testa, spinge sotto il letto quei poveri stracci e rotola verso il centro del lenzuolo. 

Ora è al centro della ragnatela della sua vita, rovescia la testa all’indietro e s’inarca, come un ragno vero. Comincia a muoversi nel momento in cui attacca la fisarmonica. Ma forse è solo casuale. La sua vita col marito è diventata la storia di due ragni: ci sono gesti d’amore e di rabbia, c’è il lavoro e ci sono i sogni, c’è la casa e c’è il mare che ribolle oltre i bordi del lenzuolo.

Forse erano cose che vedevo solamente io, eppure quando ha cominciato ad appendersi al grosso ramo, fissato con una corda al centro del soffitto, Vittorio, che era seduto alla mia sinistra, mi ha toccato il braccio e ha detto:

– Sta ccumincia co’ Enzo.

   Oggi potrei dire che Donatuccia, dopo essersi rotolata fra gli stracci della storia di suo marito, mimava la storia della morte del figlio, ma il termine ‘mimare’ non esprime veramente quello che accadeva. In realtà la tarantata nuotava fra i relitti di quella storia disgraziata. I gesti non erano portati a termine e le azioni non venivano completate. Quando Enzo era caduto dall’albero nella melma delle Lacquare, la madre preparava da mangiare, ma lei è come se non riuscisse a rimanere intorno a quel tavolino coperto da una tovaglia a quadri: va e viene di continuo dal ramo, mette la tovaglia sul tavolo e la butta via; ora pare impegnata a servire la cena e subito dopo si attacca al ramo e spia verso il fondo di fango. Riserva più particolari alla scena col vecchio suocero che sulla scena non c’ è, ma lei lo vede. E anch’io e i miei amici e, forse, anche gli altri spettatori. Gli sistema una grande bavetta intorno al collo e comincia ad imboccarlo. Pulisce amorevolmente un vecchio che in quel momento probabilmente era dentro un letto in casa di qualche vicina, lo aiuta a bere col cucchiaio. Forse perché in paese avevano mormorato che la disgrazia del figlio era stata la giusta punizione per i maltrattamenti riservati all’anziano suocero semiparalizzato. 

   Ora lei vorrebbe correre a cercare il figlio, ma il vecchio la trattiene per la gonna, le tira i capelli. E lei cerca di divincolarsi, gli morde la mano, scalcia. Finalmente riesce a raggiungere il ramo al centro della stanza, ma è tardi, Enzo è stato inghiottito dal fango. S’inginocchia e immerge il braccio nella melma. Ritorna verso il tavolino e sputa ripetutamente addosso al vecchio genitore. Ma poi lo accarezza e gli chiede perdono. Adesso corre intorno al lenzuolo. Ogni tanto si ferma e pianta lo sguardo sul volto di qualcuno del pubblico. Sembra che cerchi una persona precisa. Tutti quelli che vengono presi di mira fanno un mezzo passo indietro e abbassano la testa. 

   La taranta ha vinto. Ora bisogna vincere la taranta. 

   Scoppia il tamburello di mia nonna. Si accoda un secondo tamburello. Siamo tutti costretti a respirare seguendo il ritmo di quei colpi che rimbombano nella testa e nello stomaco. E anche i nostri cuori battono allo stesso modo.  Donatuccia si è lanciata alla caccia del ragno: due passi e poi il salto per schiacciarlo sotto il piede. Quanto durerà questa caccia? Ore. Forse giorni. Ma in fondo c’è la grazia di San Paolo e la guarigione. I tamburellisti si danno il cambio. Così pure il violinista e il fisarmonicista. Ogni tre, sei giri la tarantata piomba per terra; qualche istante per tirare il fiato e si riprende. Ma la grazia verrà. E’ sicuro. La caccia alla taranta non è solo violenza cieca: c’è il ritmo dei tamburelli che regola i salti e le cadute, il roteare delle braccia, il respiro e la corsa del cuore. Mia nonna ride e suona.

   Anche gli spettatori possono ora darsi il cambio. La tarantata è stata convincente, gli spettatori hanno capito, capirà anche il Santo.

   La ‘grazia’ per la Donatuccia arrivò nel pomeriggio del giorno dopo. Il ragno si era stancato. Aveva scansato le trappole che la donna aveva disseminato sul lenzuolo e aveva anche provato a contrattaccare nei momenti in cui Donatuccia sembrava appesantita dallo scoramento. Ma il pubblico prima l’aveva avvertita del pericolo e poi l’aveva guidata verso il nascondiglio: la mantellina della cognata, gialla come il veleno che aveva versato sulle ragioni di quella sventurata. Della mantellina gialla erano rimasti solamente pezzettini di filo sparsi per tutto il lenzuolo e su quelli Donatuccia si era accanita. Forse lei l’aveva visto mentre cercava di fare un mucchietto con i fili della mantellina per usarli come nascondiglio, ma era oramai senza forze. 

Donatuccia gli arrivò addosso, alzò il piede destro e girò lentamente lo sguardo verso il pubblico, raccolse l’energia sua, quella dei musici, quella di tutti noi e la scaricò sul pavimento. Fu proprio in quell’istante che lo vidi il grosso ragno marrone a macchie gialle. Poi raccolse il ventaglio con l’immagine del santo, se la strinse al petto e andò a guardarsi nello specchio che qualcuno aveva liberato dal velo nero. Le offrirono del vino rosso. I musici si passavano una brocca. Poi ripresero a suonare. Era sempre la pizzica, ma adesso era un motivo allegro e leggero. Tre giri di ringraziamento in senso orario. Il tempo ricominciava a scorrere nella direzione giusta. 

 Mia nonna cantava strofette licenziose:

– E Santu Paulu miu te le tarante

pizzichi le caruse a mmienzu l’anche

E santu Paulu miu te li scursuni

pizzichi li carusi alli cugliuni.

Ora è festa. E’ proprio una bella festa. La vecchia Adalgisa porta un grosso ‘mbile’ e cinque bicchieri di creta. Molti bevono direttamente dalla grossa anfora dal collo stretto rovesciandola sul polso e sul gomito. Si formano e si sformano capannelli. 

Ma era veramente morto il ragno?

   No, l’anno successivo sarebbe tornato di nuovo per riportare la sofferenza, ma anche per ritagliare uno spazio e un tempo dove quella donna senza Storia avrebbe potuto raccontare la sua piccola, insignificante storia. E anche i musici, e San Paolo con la sua luce.

   Poi sarebbe venuto un giorno in cui nessuno si sarebbe presentato all’appuntamento: né la Donatuccia, né i musici, né san Paolo, né gli spettatori. E la gente avrebbe anche perduto la memoria di quell’appuntamento. Allora, agli esseri feriti, piagati dalla vita sarebbe rimasto solamente il grande, profondo silenzio di una piega che nessuno mai sarebbe riuscito a spiegare.

Dopo la notte trascorsa con le tarantate nella cappella sconsacrata di San Paolo ogni occasione era buona per rituffarmi nelle ‘smemorie’ dell’infanzia. Uso questo termine per indicare una zona d’ombra dove s’erano andate a rifugiare esperienze che, pur avendo segnato profondamente una parte notevole della mia vita, erano state spinte in un angolo da una forza indefinibile. Nessun processo di rimozione, anche perché molte situazioni non mi riguardavano direttamente, semmai una specie di costruzione di un ripostiglio posticcio dove depositare oggetti che quasi sicuramente non sarebbero serviti più; già, “quasi”. In dialetto salentino si dice ‘mbriacchiu’. Si diceva. E Rolfs spiegava anche: “Tettoia di frasche contro il sole. Dal lat. umbraculum.”. Forse anche questo. Ma era prevalentemente una costruzione che richiedeva alcuni materiali facilmente reperibili: canne, rami secchi, tufo o terra rossa e felci (in dialetto, fiddritti) e notevoli capacità manuali. Si diceva e si faceva. Appunto.

In uno di questi ‘mbriacchi’ erano finite le mie esperienze infantili insieme alle parole dialettali, agli odori, ai sapori, ai suoni e rumori, ai volti di certe persone e a intere famiglie di oggetti. Perché era accaduto? E perché dopo la notte con le tarantate era diventato importante per me ritrovare quell’ombroso ‘mbriacchiu’ e rovistarci dentro? Intanto in quel ripostiglio non c’erano solamente le mie personali esperienze.