La notte della taranta è solo un luogo comune ce lo spiega Flaubert

di Alessandro Santoro

S’intravede all’orizzonte un sole estivo affacciarsi, accompagnato da un tenue scirocco: l’aria si scalda. In ritardo, ma pare arriverà, l’estate.

E con l’estate, nel Salento, arrivano anche le polemiche sulla Notte della Taranta. Nello specifico si disquisisce sulla coppia di fenomeni che condurrà la kermesse sui megalitici palcoscenici di mamma Rai.

Stupisce lo stupore, stupiscono gli stupiti, stupisce scoprire che ancora vi è chi considera degno di discussione un format di un palinsesto arcinoto e che ha, francamente, oltrepassato l’indicibile.
Tutto si è detto.
Gli accaniti fan e i pertinaci detrattori si sono espressi.

Acqua che scorre. Acquetta, in mezzo a tanti acquazzoni, acquitrino paludoso dove impantanarsi è ovvio, financo doveroso.

In un esilarante libretto postumo di Gustave Flaubert dal titolo “Dizionario dei luoghi comuni”, mi sono imbattuto in una prefazione di Juan Rodolfo Wilcock che ben s’addice alla fanghiglia smossa dall’annuncio dei prossimi presentatori della Notte della Taranta.

Scrive il poeta argentino naturalizzato italiano:

“Prima, una letteratura di pionieri: si spingono in una data direzione e piantano un palo con la scritta: più in là non si può andare. Esempi: l’autore del Don Chisciotte, Shakespeare, Racine, Ariosto, l’autore del Faust […]. Il resto è chiacchiera. La fantascienza ripete annacquato un racconto di Dostoevskij. Tutto è annacquato: la direzione tradizionale finisce proprio nell’acqua. Si canta sulla riva la fine del continente letterario, la morte dell’arte per affollamento”.

Chiaro no?

La Notte della Taranta non è nemmeno acqua. E’ luogo comune. La morte del Salento per affollamento è evidente da qualsiasi lato lo si voglia guardare.Sul continente abbiamo (per fortuna) lasciato Carmelo Bene e Rina Durante, gli Ucci e Girolamo Comi, i Vittorio Bodini e Pagano, abbiamo lasciato i contadini con le loro terre sottratte allo sfruttamento dei latifondisti, abbiamo lasciato il bel vivere ed il bel mangiare, l’aria pulita  e le visioni bucoliche da Eneide, sul continente abbiamo lasciato la poesia dei vecchi cantori e la saggezza dei migranti. Abbiamo lasciato i nostri padri.

Ma la terraferma è ben lontana ormai.

Annaspiamo nell’acqua putrida di interessi poco poetici, affoghiamo nel fango e nei rifiuti da affollamento, ci scanniamo per un tuffetto in uno spicchio di mare non privatizzato, abbiamo l’acqua alla gola. Chi ha più voglia di cantare?

Certo la signora Belen e il De Martino ‘fausu’ hanno voglia di cantare. Sguazzano tra le onde del nulla.

Nel libretto di cui sopra, Flaubert si divertiva ad appuntare parole con i relativi luoghi comuni.

Come, ad esempio “Celebrità: Interessarsi di ogni minimo particolare della loro vita privata per poterle denigrare. Musset si ubriacava, Balzac era pieno di debiti, Hugo era avaro”.

Si assomigliano tutti i luoghi comuni.  Il “Mare: non ha fondo. Quando lo si guarda, dire sempre: Quanta acqua!”

Mentre guardate la Notte della Taranta, quindi, non dimenticate di dire tutti in coro: quanta acqua!

Lì dove c’era un mare è rimasta tanta acqua. Anzi solo il suo luogo comune.

Ho letto le poesie di Wilcock e ne ho trovata una, sembra proprio scritta per noi, tratta dalla raccolta “Luoghi Comuni”.

Quant’era bella e svariata la vita!

quando il tempo ci bagnava nella sua corrente! 
E talvolta bastava il volo di un uccello 
a disegnare in cielo la vastità del tramonto. 
Ora invece che cosa siamo? 
Solo un profumo di fiori appassiti, 
una fotografia strappata; 
non abbiamo lasciato una traccia sugli specchi; 
nei fiumi in cui bevemmo le acque sono mutate 
e gli alberi che amavamo sono ormai tutti abbattuti.